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Beck – The Information

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Il semplice fatto che la Official Chart Company, l’agenzia inglese che gestisce i dati sulle vendite dei prodotti musicali, gli abbia negato l’accesso alle classifiche “a causa delle innovazioni della confezione che potrebbero avvantaggiare il prodotto”, è l’ultima, ulteriore, forse definitiva, prova dell’imprevedibilità di Beck Hansen. Soprattutto se la pietra dello scandalo non è da rintracciare in contenuti espliciti o subliminali né in copertine ammiccanti o ambigue, quanto, invece, in una serie di innocui adesivi, adeguatamente naif, offerti dalla casa per personalizzare la copertina a dir poco spoglia dell’ultima fatica “THE INFORMATION”. Altra sottolineatura preliminare, il ritorno dell’amico illustre, Nigel Godrich, lo storico produttore dei Radiohead (e tra gli altri di Travis, Pavement, Paul McCartney, REM, Air, U2), indiscussa garanzia per album mai sotto la sufficienza. Questo “The information” non è certo un’eccezione.
Nessun proclama di lancio, nessuna intenzione di sconvolgere il panorama musicale attuale, nessun rinvio strategico. Beck, ben consapevole dell’unicità della sua proposta musicale, sa ormai quale strada percorrere. Basta premere play e una una voce in background lancia un “One, two, you know what to do” quanto mai azzeccato. “Elevator music”, classico ritmo beck-iano di derivazione folk-blues, proiettato avanti di almeno mezzo secolo in ipnotici tessuti rap che preludono il rallentato con chorus inevitabilmente trasognato quanto scazzato. Non epocale quanto quello di “Loser” ma efficace il giusto. E’ invece una raffinatezza sottile quanto inedita l’incredibile struttura di “Think I’m love” che alterna ritmiche wave private di qualche bpm, congas, un ritornello mozzato con piano epico da vecchi U2 e deviazioni beatlesiane con sconvolgenti incursioni orchestrali.
Ogni brano sembra fare storia a sé. “Nausea”, presentata nel tour estivo di supporto ai Radiohead, con quel riff “che più Beck non si può” e quel motivetto che entra in testa anche con le più estreme resistenze psicologiche, è il tormentone ad alto potenziale televisivo (sulla scia di “Loser”, “Devil’s haircut”, “Sexx Laws”, “E-pro”).
Nell’ultimo cocktail del cantautore di Los Angeles che, tra gli attuali, sembra ormai uno dei pochi che continua a sfuggire alle massicce campagne di etichettatura dei generi della critica, si riesce a rintracciare un’unica categoria. E’ quella degli episodi hip-hop, una delle sue maschere più ricorrenti, cui sembra non voler fare a meno anche in questo decimo album, in parte a spese della maschera da intrattenitore che in “Guero” aveva indossato con la stessa frequenza, dopo la pausa di riflessione dell’acustico “Sea change”. Per fortuna tali episodi sono conditi saggiamente da quel valore aggiunto che nel precedente, mezzo passo falso “Guero” mancava come il pane, il laboratorio di suoni dell’alchimista Godrich. Quegli arrangiamenti fatti di effetti, echi e campionamenti, giustapposti tra introduzioni, intermezzi e chiusure, apparentemente estranei al contesto del brano ma decisivi nel rendere meritevoli di attenzioni brani altrimenti anonimi. Per fare alcuni esempi dell’ormai proverbiale hip-hop à la Beck, si notino gli effetti industrial-kraut della Beastie Boys-iana “1000bpm”, il fido game-boy dell’accattivante “We dance alone”, gli echi spettrali di una “Dark star” che sfoggia, oltre al ricorrente “You know what to do” scratchato, armonica e violini “autoreferenziali” che ci regalano atmosfere rievocative come solo in “Sea change”.
Non mancano le commistioni caraibiche nel coretto tra Flaming Lips e Beach Boys che si insinua nell’ottima “Cellphone’s dead”, psichedelia dalle suggestioni elettroniche che non avrebbe sfigurato in “Odelay” o nel liberatorio soul pianistico di “Strange apparition”.
Non mancano le strizzatine d’occhio all’elettronica, nella titletrack d’impianto pop e un’incedere sincopato in spiazzanti cambi di tempo cari ai Radiohead elettrici, e nei momenti lo-fi tra Eels e Pavement (“Soldier Jane”, la tormentata “New round” e “No complaints” che sembra un outtake di “Mellow gold”) in cui l’originalità lascia spazio alla vena melodica più pura, sospinta da un basso prorompente, colorato da singhiozzanti vortici di tastiere, xilofoni, effetti, synth che vengono colti a pieno solo dopo vari ascolti. E’ la cura-Godrich. La stessa cura che marchia a fuoco tre episodi di pura avanguardia pop tra il visionario e l’inquietante, ideali sviluppi dell’irripetibile “Derelict” da “Odelay”, vale a dire “Motorcade” e “Movie Theme”, ideale punto di raccordo tra le eteree malinconie lunari degli Air e i minestroni elettronici di Nathan Fake, fino alla lunghissima delirante “The Horrible Fanfare, Landslide, Exoskeleton” di chiusura, la “Revolution n.9” di Beck. L’effetto è straniante, addirittura più del disco intero, tirando i conti, forse il più diifficile da digerire tra tutti i precedenti.
Non c’è alcun filo logico? I pezzi sono slegati? La proposta musicale è la solita rielaborazione di molteplici stili musicali? Beck è tutto questo. E molto altro. Sfugge da ogni logica. E, soprattutto, anche se non lo manda a vedere con quell’aria da inguaribile svampito, sa sempre cosa fare.

Tracklist
1 Elevator Music
2 Think I'm in Love
3 Cell Phone's Dead
4 Nausea
5 Soldier Jane
6 Strange Apparition
7 Dark Star
8 Movie Theme
9 We Dance Alone
10 No Complaints
11 1000 BPM
12 Motorcade
13 The Information
14 New Round
15 Horrible Fanfare/Landslide/Exoskeleton

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