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I LOVE YOU BUT I’VE CHOSEN DARKNESS – Bologna, 20/10/06

Il tormentato “Fear is on our side” è uno dei dischi più belli di questo magro 2006. Primo album, primo tour europeo. Anche noi non potevamo che scegliere l’oscurità. I LOVE YOU BUT I’VE CHOSEN DARKNESS.

di Piero Merola

Quale location più adatta del Covo per inaugurare la tornata italiana del tour internazionale degli I LOVE YOU BUT I’VE CHOSEN DARKNESS? Le luci basse dello storico club creano l’atmosfera giusta. Ai Tarantula A.D., con una formazione mutilata non si capisce se per motivi di spazio o per motivi tecnici, l’occasione di far conoscere il loro heavy con riferimenti classici e post-rock, riesce in parte. Un’interpretazione minimale che prova a scaldare il “corridoio”. Prima che arrivi il freddo. I riverberi shoegaze della strumentale “Today”, che fa da sfondo alla comparsa in scena dei cinque texani, scivolano liquidamente nelle dissolvenze dell’evanescente “We choose faces”, uno dei pezzi clou dell’album. Inizio solenne, con la voce di Goyer che si insinua quasi strozzata dagli echi delle tre chitarre fino al materializzarsi della secca ritmica da nuovi Talk Talk. E poi ancora “The ghost”. Beat che sembrano venuti fuori da Pornography, melodie imbevute di uno spleen degno dei Joy Division, pur non esasperato furbamente come da molti altri cloni della dark-wave anni 80. A tratti il frontman ricorda (e non solo esteticamente) Glen Johnson dei Piano Magic sia nel modo di porsi quanto nella calda reinterpretazione di atmosfere gelide e spettrali. Un esempio su tutti l’inquietante “Long walk” che anestetizza tutti i duecento, e non di più, presenti, non solo per l’aria che minuto dopo minuto latita. Difficile persino battere il tempo. Che poi a dirla tutta in pochi sembrano essere venuti con quelle intenzioni. I Chosen Darkness vanno subiti in un silenzio da meditazione. E così è, per fortuna.

Le atmosfere torbide e avvolgenti che caratterizzano quasi per intero questo “Fear is on our side” (che dal vivo, nonostante l’iniziale scetticismo dettato dall’abnorme schiera di revival-isti degli ultimi anni, sembra funzionare più che su disco), dalla title-track a “Last ride together”, eleganti e malinconiche revisioni “elettroniche” di ballate alla Echo & the Bunnymen, lasciano tuttavia parziali spiragli di luce, o quantomeno di crepuscolo. C’è “Lights” coinvolgente incrocio tra New Order e primi U2, il cui accompagnamento finisce per ricordare gli Interpol negli ipnotici tessuti chitarristici, di gran lunga più dilatati e meno taglienti rispetto ai colleghi newyorkesi. C’è una “At last is all” che più Cure non si può e la ritmata, non inclusa nell’album, “When you go out”. Il meglio ce lo lasciano alla fine. La splendida ipnosi di “According to plan” in cui le frustate in levare di un Tim White preciso quanto una base continueranno a riecheggiare per un bel po’ negli spazi angusti del Covo (oltre che nella mia testa), dà una sferzata quasi dance all’esibizione. Esecuzione magistrale con tanto di coda rumorosa da discepoli shoegazer più che da adepti dark-wave. Ancora meglio, nel bis (giusto il tempo di farsi strada in mezzo a noi per rifornirsi al bancone in fondo alla sala per tornare subito sul palco), l’eterea “If it was me”. La voce è straziata e calpestata da un giro ripetuto fino alla paranoia e vellutati arpeggi che aprono al riecheggiante gemito soffocato del chorus. Finale noise e prolungato, nel brano-ponte tra la new-wave e la no-wave dei Sonic Youth. Emozionante.
E poi – mi si passi la citazione – il buio…
Piero Merola

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