Impatto Sonoro
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THE DECEMBERISTS – Bologna 17/02/07

Ma questi DECEMBERISTS, che godono di un successo tanto clamoroso negli Stati Uniti, meritano veramente tanta attenzione? Noi siamo andati all’Estragon, unica data italiana, per capirci qualcosa di più. E neanche a dirlo, in platea, più americani che italiani.

di Piero Merola

La vita riserva sempre coincidenze. Il giorno della grande manifestazione contro il raddoppiamento della base di Vicenza ti ritrovi in un Estragon pieno di americani. Perchè è l’unica data italiana e i DECEMBERISTS in America hanno la stessa popolarità che da noi ha gente come gli Zero Assoluto o i Negramaro. Giusto per farsi un’idea delle proporzioni e soprattutto del divario musicale tra noi e loro. Ma questo è un altro discorso che, almeno per oggi, diplomaticamente, sarebbe bene tralasciare. Anche perchè la serata inizia, almeno per me, con un taglio tutt’altro che internazionale. Un personaggio che la Gialappa’s assumerebbe al volo mi blocca alla fermata per chiedermi informazioni sulla serata.
“Un mio collega mi ha detto che da qui si prende il bus per andare al Parco Nord che c’è un concerto. Che concerto è?”
“Un gruppo americano, i Decemberists”
“E’ vedibile?”

Poco da aggiungere. Vedibile diventerà l’aggettivo della serata.
Estragon gremito. Ma i sei protagonisti del Beaver state (lo stato dei castori, ovvero l’Oregon) tardano a salire sul palco. Uno snervante sottofondo targato Prokof’ev, la nostalgica colonna sonora di “Pierino e il lupo” alternata a imperscrutabili registrazioni sullo stile dei corsi di lingua in musicassetta, rende l’attesa interminabile. I nostri amici d’oltreoceano si possono permettere di ammazzarla con svariati bicchieri di vino rousso, noi più banalmente con una birra. Finalmente le note della vivace “The crane wife 3”, brano che per altro apre anche l’ultimo album, rompono il silenzio. Colin Meloy, il bizzarro frontman, ha in tutto e per tutto l’aspetto di quei nerd presi di mira con scherzi epocali nei college-movie americani. Il coraggioso abbinamento tra giacca color panna e pantalone semi-elegante nero insieme agli inevitabili occhiali apoteosi del nerd-style completano il quadro. La caratteristica voce però è già calda nonostante non sia uno dei brani propriamente più adeguati per aprire uno show. E, seguendo idealmente la tracklist del nuovo ineffabile album che prende il titolo da una novella giapponese, si entra subito nel lungo tunnel del quarto d’ora scarso di “The island”. Inconsueta cavalcata in tre atti tra folk e prog aperta da un improvvisazione noise che sfocia in uno dei giri più prog di una delle band meno prog del nuovo decennio. L’effetto è spiazzante, ma in accezione oltremodo positiva (se lo dice un detrattore del prog come il sottoscritto…) Anche perchè nei numerosi cambi di atmosfera è difficile annoiarsi. Si passa da atmosfere tese in controtempi quasi grunge, a fughe tra west-coast e ancestrali canti medievali fino alla tellurgica esplosione tra Jethro Tull e psichedelia canterbury, che infiamma l’Estragon. Lui, Colin, si lascia coinvolgere con moderazione dalla travolgente ritmica innescata dal malatissimo organo della posseduta Jennifer Conlee. Seconda voce, pianola e organo. Sfidata, per altro, all’organo dall’altrettanto duttile batterista John Coen, elegante e misurato a dispetto di un look da camionista dell’Arizona.
Nonostante qualche sbavatura iniziale il sound assume la propria forma con un succoso duo dal precedente “Picaresque”, la “Losing my religion” dei Decemberists (dire che l’inizio la ricorda vagamente è poco anche se poi si dipana su venature care agli Smiths), “We both go down together” e la toccante “Engine driver” scandita parola per parola dagli amici a stelle e strisce. Non l’unica chicca dal suddetto album. Arriverà anche il cavallo di battaglia, la marcetta beatlesiana “16 military wives” che l’esuberante Colin trasformerà in un contest a colpi di “da-di-da-di-da-di-da” facendo dividere il pubblico in due schieramenti contrapposti. E divisi concretamente da uno spazio vuoto nel mezzo della platea. Ovviamente vincerà l’esagitata fazione yankee nonostante il mio apporto piuttosto distaccato.
Per il resto la setlist è certamente incentrata sulle novità – dal pop naif e saltellante alla Belle & Sebastian di “O Valencia” alla scarna e minimale “Shankill butchers” passando per il fiabesco duetto tra Colin e l’egregia violinista Laura Veirs (anche lei più duttile che mai tra glockenspiel, chitarra elettrica e svariati strumenti a pizzico non identificati) di “Yankee bayonet” – ma non disdegna i vecchi classici. Colin, paffuto menestrello, estroverso e sui generis, è sempre col sorriso sulle labbra, divertito dalle molestie verbali di un’affezionatissima fan che gli urla “I love you” ad ogni silenzio utile. Per la gioia degli yankee, che sillabano come in un karaoke i testi di ogni canzone, arrivano due pezzi forti del repertorio. La giocosa “Billy liar” e “Red right ankle”, malinconica melodia alla Neil Young, primo encore della serata, entrambe dal secondo album “Her majesty”. Non prima dell’uscita di scena sulle note di “Sons and daughters” rurale country-folk con tanto di finale corale pacifista (è proprio la giornata adatta, si direbbe in questi casi). La prolungata cantilena recita inequivocabilmente “Here all the bombs fade away”. Emozionante, nonostante i disturbanti falsetti delle yankee meno sobrie.
Ma è nel finale che l’anima più da avanspettacolo dell’ottimo Meloy trova sfogo. Dapprima anestetizza i suoi soci con un semplice buffetto sulla testa che li fa svenire uno di seguito all’altro, poi, al risveglio della svampita Jennifer Conlee e del navigato Chris Funk (neanche a dirlo chitarra, theremin, banjo e marimba) si improvvisa sarcasticamente guitar hero avvicinandosi alla transenna per sfoderare un paio di assoli, per poi risalire, infine, sul palco facendo perdere le proprie tracce per qualche secondo. Sbucherà alle nostre spalle saltellando come un castoro infervorato e scatenando un incontenibile pogo, confuso tra i connazionali più irriducibili. E’ la travolgente reprise della cavalcata un po’ irish-folk, un po’ country-western di “The chimbley sweep”. Esilarante. Nonostante una spallata del massiccio Meloy metta a dura prova il mio equilibrio già di per sè precario. Ma non è finita qui. Mai domo, risale sul palco, si prende per l’ultima volta gioco di noi facendoci sedere per terra. E una nuova folgorante reprise rende il clima ancora più incandescente fino al vertiginoso finale accelerato. Tutti di nuovo in piedi. Impossibile resistere.
Stasera ho capito perchè nel manifesto del fantasmagorico cast del “Coachella Festival”, lo stellare happening californiano di primavera, il nome Decemberists campeggia in un carattere grosso quanto quello di gente come Air, Jesus & Mary Chain, Interpol, Arcade Fire ed Happy Mondays.
La band di Portland è una delle live-band in attività più entusiasmanti. O se preferite, più vedibili.
Oggi sarebbe la giornata meno adatta, ma, per una volta, diamo ragione agli americani.

Piero Merola

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