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Interviste

Intervista ai MOLESKIN

MoleskinGià dopo i primi minuti di “Penelope”, chi conosceva i Moleskin dal loro primo e omonimo album avrà già avuto una sussurrata ma trionfale conferma, chi invece non ne aveva sentito parlare tornerà per l’ennesima volta ad interrogarsi sull’affidabilità del mercato discografico. Quattro anni di minuziosa e artigianale lavorazione per un disco che rende poco chiaro dove finiscono le scelte emotive e dove iniziano quelle compositive. La naturale conseguenza sarà chiedersi quanto un fatto emotivo possa essere frutto di una scelta, ma poi, rinunciando a trovare una comunque inutile risposta, non resta che benedire un disco che porta addirittura a queste domande e lasciare di nuovo la parola a brani come “In luce” o “Voglio muovermi”, fra i tanti episodi felici che episodi non sono.

Fra i tanti modi possibili, la bellezza di “Penelope” si può capirla attraverso l’incapacità dei bambini di spiegarsi come agli adulti possano piacere i sapori amari come quello del caffé, per esempio. Ci si trova quella stessa amabilità propria di certa amarezza. Anche se si potesse scomporre queste canzoni in più livelli, sarebbe comunque arduo capire dove si annidano i motivi di tensione e dove quelli di serenità. Ed è in questa ambiguità che i Moleskin sembrano aver scovato il prezioso margine vuoto per riuscire a contestare efficacemente l’ingombrante opposizione fra l’arrendevolezza e l’urgenza. E, arresi di fronte a questa piacevole inquietudine, non ci sarà da sorprendersi se, dopo aver ascoltato l’album, per un attimo ci verrà il dubbio se quella della copertina è la foto di un tramonto o di un fungo atomico.
Penelope Raw
Sentiamo cosa ne pensano Marco Mencarelli e Matteo Bianchini, cantante e bassista del gruppo, con cui abbiamo scambiato qualche e-mail.

C’è una differenza d’atmosfera palpabile, rispetto al vostro lavoro precedente. La copertina del primo album (“Moleskin”, Stout Music) era nera, in quella di “Penelope” il sole è al tramonto (o all’alba, perché no): la crescente solarità (chiamiamola così) della vostra musica sta portando verso una ipotetica e simbolica terza copertina ancora più illuminata? Ma quanto può essere ingannevole l’impressione di “solarità” ?

Matteo: A me pare che, man mano che il nostro percorso procede, ci si liberi di ogni tanto di qualche fardello inutile, e questo mi pare si rifletta in qualche modo in una maggior consapevolezza e “serenità” nell’approccio. In questo senso, forse mi aspetto più “luce” anch’io, volendo fare il gioco della copertina.

Marco: Più che di solarità comunque, ricercando uno sviluppo lineare che leghi i due lavori e che possa essere approfondito in futuro, parlerei di spazialità. Pensando al rapporto che sussiste tra “Moleskin” e “Penelope” mi viene in mente l’aria. In “Penelope” lo “spazio”, e conseguentemente l’aria contenutavi, è maggiore; il respiro è meno affannoso; i polmoni sono più liberi (anche di contorcersi ovviamente). Ipotizzando un terzo lavoro, la strada che mi piacerebbe percorrere è quella che, paradossalmente, conduce all’assenza d’aria; riuscire a non averne più bisogno sarebbe un enorme passo avanti; come tradurlo in musica poi, creando di fatto un disco anossico, è tutto un altro problema.


Cosa ha fatto di così bello Penelope, nel corso della sua vita, per trovarsi a dare il nome al vostro album?

Marco: Ha aspettato, banalmente e virtuosamente. La condizione di chi si prende del tempo, per darne al tempo stesso, è tra le più difficili da sostenere. Questo è quello che noi, per scelta e per necessità, abbiamo fatto. Penelope rappresenta sostanzialmente la simbiosi, impegnativa ed al tempo stesso necessariamente piacevole, che abbiamo vissuto con il lavoro e tra di noi. Penelope è l’archetipo del movimento a ritroso volto al futuro; il suo “fare e disfare” è molto simile al “creare e distruggere” che adottiamo nella composizione delle canzoni, nel relazionarci con noi stessi e con i contesti con cui veniamo in contatto. Proprio queste due azioni, “creare e distruggere”, ci hanno coinvolto e consumato maggiormente, ci hanno modificato rendendoci diversi, non solo artisticamente, da ciò che eravamo in precedenza. Sotto questo aspetto, comunque, il disco si sarebbe potuto chiamare più coerentemente “Ulisse”, soprattutto perché l’immedesimazione con Penelope è più nostra che del nostro lavoro, che comunque ne subisce ovviamente il riflesso. Penelope però non è solo questo; è il nostro lato femminile, è la fedeltà che ci siamo promessi, è la calma che ci siamo presi, è la tenacia di cui ci siamo dovuti inevitabilmente dotare e, soprattutto, è una splendida parola.
Matteo: Bene, bravo, bis. Ho la fortuna di suonare con uno dei cantanti più intelligenti del mondo. Ma dato che ho sempre qualcosa da ridire, ridico: non credo che questo disco avrebbe potuto chiamarsi “Ulisse”, perché Ulisse urla e trascina i suoi attraverso il suo viaggio eroico.
In questo disco non c’è alcuna volontà di trascinare nessuno, anche gli episodi più muscolari sono comunque riflesso di uno stato interiore, più che volontà di trascinare chicchessia “colà dove si puote ciò che si vuole”. Qualcuno ha scritto che l’unico difetto del disco è la mancanza di un brano “trascinante”: ecco, diciamo pure che chissenefrega di trascinare. Quello che mi atterrisce è come un certo modo di pensare e di “consumare” la musica abbia davvero raggiunto tutti: si cerca per forza qualcosa che “ci porti via” o che ci faccia sentire più forti, muscolosi e unti, più eroi o semplicemente più “fighi”, in qualsiasi declinazione del termine s’intenda la cosa. Per fortuna da questo morbo si salvano ancora i libri, forse perché richiedono necessariamente un tipo di atteggiamento, per la loro fruizione, che di per sé favorisce, anzi pretende l’”ascolto” e l’attenzione. Pensa se qualcuno si azzardasse a giudicare, che so, una raccolta di racconti dicendo “bella, ma gli manca il racconto trascinante”.

Un aspetto che ritengo interessante del lavoro di studio (nei casi in cui sia minuzioso ed oculato come il vostro) è quanto conti la volontà più o meno cosciente di guidare l’esperienza dell’ascolto del prodotto finito. Intendo dire che c’è sempre un certo margine d’imprevedibilità nella percezione dell’opera, da parte dell’ascoltatore, e la mia domanda è quindi, per dirla banalmente, se e in che modo vi siete posti il problema.

Marco
: Fortunatamente, in larga parte, non ci poniamo problemi di questo tipo. L’attenzione viene veicolata interamente verso la bellezza, la coerenza, la lucidità che il lavoro merita di avere a prescindere dalla natura del tipo di ascolto. Il fatto poi di risultare “imprevedibili” è estremamente piacevole ma anche del tutto involontario. La nostra impossibilità di sorprenderci del lavoro finito, in quanto autori, è forse la radice che ci permette di sorprendere; la nostra normalità, evidentemente, è per gli altri anomalia; ciò che per noi è scontato e lineare diventa imprevedibile ed articolato agli occhi di chi non può condividere il nostro quotidiano.

Matteo: Il “margine di imprevedibilità” è proprio la cosa su cui, anche in fase compositiva, cerchiamo di buttarci a capofitto, non sempre riuscendoci, ma è lì quello che cerchiamo.
“Guidare l’esperienza dell’ascolto” è quasi una contraddizione in termini, e quello che dicevo a proposito di Ulisse si applica bene anche in questo caso: l’Ulisse “duce” non ci interessa molto, così come altri personaggi che si sono “fregiati” di questo appellativo.
Si può al massimo “invitare” all’ascolto, e comunque anche in questo caso l’unico modo efficace è quello di mettersi per primi all’ascolto, essere i primi ascoltatori di noi stessi, ed è semplicemente quello che abbiamo cercato di fare. Questa cosa non sembri un’elucubrazione mentale fine a sé stessa: ha a che vedere, per esempio, col fatto che sapevamo di non poter avvalerci di un produttore artistico “esterno” (leggi “Benvegnù”, che è potuto stare con noi davvero per poco tempo, rispetto all’infinito parto che è stato il disco), almeno non in maniera continuativa. Diventava dunque di fondamentale importanza, anche pratica, fare lo sforzo di percepirsi quasi come ascoltatori esterni, per non rischiare di cadere nell’autoreferenzialità.
In questo, come in moltissimo altro, è stato prezioso l’apporto di Michele Pazzaglia.
Leggo questa cosa nell’ottica di quella che per me è una frase chiave di tutto il disco: “un fremito mi assale / se mi guardo con occhi diversi dai miei”.
Moleskin
Per completare Penelope ci sono voluti, se non sbaglio, 4 anni. Uno dei motivi è forse l’evidente “democrazia” che vige nelle vostre scelte compositive e d’arrangiamento. Quanto è applicabile, e in che modo, questo modo di procedere per l’aspetto dei testi?

Marco: Più che di democrazia, parlerei di singoli totalitarismi in coalizione; la democrazia è divenuta nel tempo un insieme di monologhi collettivi; al contrario, quello che noi facciamo è adottare la tattica del compromesso costruttivo (nella migliore accezione del termine). Per quanto concerne i testi il discorso si complica: pur rimanendo per natura aperti a critiche e suggerimenti, il nervo del linguaggio (significanti e significati) risulta essere quello posto maggiormente in superficie. Personalmente trovo assai difficile confrontarmi con gli altri nella fase di stesura dei testi, forse perché vivo il momento della scrittura come uno dei più intimi e privati che mi sia concesso di vivere. Davanti agli occhi dei componenti dei Moleskin ho fatto praticamente di tutto senza provare il minimo imbarazzo, credo però che incontrerei notevoli difficoltà nell’elaborare un testo per intero a “mente nuda” in loro presenza, pur trovandomi in famiglia.

Matteo: Mi riprometto presto di sconfiggere finalmente questa maledetta democrazia, sciogliere il gruppo e riformarlo con il nome di “Matteo e i suoi comprimari”.
La nostra democrazia ci “attanaglia”, ma è forse la nostra vera forza, in quanto, essendo fondata sul profondo egoismo e sul cercare di rispettare l’egoismo degli altri, è l’unica forma di democrazia possibile.

“Penelope” gode di alcuni appoggi esterni, in particolare quelli di Paolo Benvegnù e Michele Pazzaglia. Qual è stato il rapporto con l’idea di vedere il vostro lavoro, in un certo modo così intimo, spiato dall’interno e felicemente contaminato da questi interventi?

Marco: L’intimità può dirsi veramente tale solo se è condivisa, in caso contrario ci troveremmo a parlare di riservata solitudine. Paolo e Michele sono le migliori persone con cui condividere il proprio “focolare artistico”; hanno avuto il ruolo di “vestali” completandoci artisticamente, impedendo al fuoco di spegnersi e accendendo luci dove noi, a volte, non vedevamo che buio.
Matteo: Tutte le volte che si nominano queste due persone, dovremmo solo e semplicemente scrivere un milione di volte “grazie”. Essendo scomodo anche col copia-incolla, mi limito a godermi l’immagine di Michele e Paolo in abiti da vestali.

Secondo la vostra esperienza e le vostre scelte, qual è la fase del lavoro su un disco in cui il bisogno d’empatia emotiva fra voi si rivela il punto centrale di tutta la faccenda? Potrebbe essere anche una fase d’imbarazzo, di messa a nudo, o un momento in cui ogni discorso in studio può essere introdotto da un “a parte scherzi”. Ai Moleskin succede qualcosa del genere?

Marco: Molto probabilmente il “prima” ed il “dopo”. Intendo dire che, se nella fase prettamente compositiva l’empatia è “una” delle componenti (quali ad esempio: la musica in se stessa, la vita vissuta, il gusto personale, il disco ascoltato il giorno prima, lo strumento che si ha tra le mani…), nelle fasi antecedenti ed in quelle successive alla nascita delle canzoni, l’empatia è il motore che ci spinge a “creare” ed il freno che ci impedisce di “distruggere” permettendoci di confrontarci solo con gli occhi degli altri, senza dover ricorrere ad inutili esercizi retorici.

Matteo: Non credo molto all’empatia: anche quando ti sembra che “stiamo pensando le stesse cose”, se vai a vedere bene ognuno prova una cosa diversa. Credo all’attenzione, verso sé stessi e verso chi sta facendo con te una cosa così preziosa come suonare. Credo che coltivare quest’attenzione duplice permetta poi di stabilire una prossimità reciproca che diventa l’amalgama senza il quale non ti potresti sopportare per più di due giorni in studio.
Ancora più difficile dell’empatia è la comunicazione, quindi, nei nostri continui tentativi di metterci a nudo l’un l’altro (l’imbarazzo è una parola che ormai non esiste più, tra noi) capita spesso di dover cercare di sdrammatizzarsi, piuttosto che di cercare di mettere da parte gli scherzi. E serve non tanto per “capirsi” o cercare un’empatia, quanto per cercare di sgombrare almeno il campo dai meccanismi di autoprotezione che si innescano quando ci si confronta con quest’incomunicabilità.

Web: http://www.moleskin.it

Lorenzo Alunni
Foto di Serena Facchin

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