Provenienti dal bollente calderone musicale anconetano, I Lebowski cantano quello che la vita ha messo loro davanti agli occhi. Più che cantare, il loro è uno modo di raccontare situazioni, reali o no, che vengono direttamente dal loro vissuto o da quello di qualcuno molto vicino a loro. Il tutto si evince dalla maniera che Simone Re (voce, chitarra, tastiera, synth) ha di usare la voce e le tonalità di essa, quasi a voler narrare più che cantare. Il tutto in un misto italo-franco-inglese che contribuisce ad aggiungere una goccia di assurdità alle già controverse costruzioni testuali dei brani. Quello che sembra è che i Lebowski siano un residuo di una qualche scena underground sottovalutata esistita negli anni ’80. quello che è la “verità”, è che i Lebowski sono un tentativo di rivitalizzare un certo discorso musicale che è appartenuto solamente ai DEVO, e a tutta una serie di figliocci semi-sconosciuti e assai male valutati. Il tutto immerso in una pur lodevole capacità compositiva da attribuire ai diversi membri del gruppo: Marco Mancini (basso), Riccardo Franconi (chitarra, voce), Riccardo Latini (batteria, Drum machine), sono l’ancora di salvezza di una demo un po’ troppo “avveniristica” e “misteriosa”, comandata da una serie di digressioni elettroniche che brillano in una semi-oscurità. L’apice lo si può leggere benissimo nella ossessionante Alberigo Evaniscent, resa meno claustrofobica da appunti chitarristici sporadici che al singhiozzo sputano un attimo di vita in un pezzo altrimenti morto. E lo stesso copione si ripete nella successiva Didier e il suo cesto di droga, il tutto preparato per dare maggiore visibilità alla voce che, tuttavia, non riesce ad emergere, ne sulle tonalità, ne sulla melodia. Eppure nulla è da condannare in via definitiva, e qui spunta la giocosa e irriverente Casa Comenji, che trova il suo naturale seguito in Bertò 131, che divide la sua vita tra una puntata di Daitarn 3 e il menefreghismo verso un qualsiasi attivismo politico, i synth rimbalzano sui muri come palline da squash alternandosi con un rumore chitarristico cantilenante e ipnotico. Episodi riempitivi di questa strana composizione sono St-N-N-N e Church of Fonz che sembrano voler invitare l’ascoltatore a passare 5 minuti di più con la musica dei Lebowski nelle orecchie. Un disco in chiaroscuro che fa intravedere buone capacità e una discreta tecnica compositiva e che evidenzia, tuttavia, come la ricerca di una stabilità musicale da parte dei Lebowski sia ancora lontana dal compiersi.
Taste: Casa Comenji, Bertò 131