In barba a chi si era bevuto i suoi declami su un possibile scioglimento del gruppo, a chi ha sempre sostenuto che dietro alla band ci sia un fitto entourage che produce i loro dischi o a chi semplicemente non li ha mai digeriti, l’ex Blur Damon Albarn ha riportato sulla scena mondiale la sua creazione animata in due dimensioni con “Plastic Beach”, un disco pop nell’accezione più letterale del termine.
Non necessariamente da intendere come un concept album, il terzo lavoro in studio dei Gorillaz è un misto di dub, elettronica, hip-hop e, per l’appunto, tanto tanto pop; di quello che scarti e consumi senza prestare troppa attenzione ai particolari. “Plastic Beach” riprende sonorità dance figlie degli anni ’80, le mischia a chitarre sixties e si circonda del meglio degli esponenti della scena hip-hop, rock e soul mondiale.
Il pezzo che apre le danze è un overture che fonde insieme sonorità ambient a musica sinfonica, sono i titoli di testa di una festosa opera a colori che tocca gli apici in “Superfast Jellyfish” – in cui il rap dei De La Soul si unisce al ritornello intonato da Guff Ryhs che suona tanto jingle pubblicitario – “Some Kind of Blue”, con la partecipazione di un impeccabile Lou Reed e la title track con Mick Jones e Paul Simon. I Gorillaz non sbagliano neanche i pezzi più melodici in cui mischiano le loro costruzioni musicali a sonorità folk.
Un’orgia di colori, suoni, snyth, raggi laseri, fanno di “Plastic Beach”, a differenza dei precedenti lavori, in cui oltre ai singoli non ricordo brani memorabili, un album di canzoni quasi tutte riuscite.