L’autunno sta ormai per sequestrare i rimasugli dell’estate nel suo garage, e con l’aiuto della pioggia si appresta a strangolarlo. All’interno della discoteca invece il clima è tropicale, e lo sbalzo mi fa quasi dimenticare di aver appena visto un bambino di non più di 10 anni aggirarsi tra la fila che aspetta di consegnare le giacche al guardaroba, una visione che farebbe la gioia del Cohn-Bendit di “Grand Bazar” – anche se più prosaicamente doveva trattarsi del figlio di qualcuno che lavorava lì, e non di qualche esperimento sociologico volto a stimolare la sensibilità sessuale infantile tramite una musica che si rifà alle colonne sonore dei porno, con il supplemento di testi infarciti di orge, pompini, viados e Lapo Elkann.
Il 27enne Casto Divo in questi ultimi due anni ha visto crescere notevolmente un seguito che inizialmente era formato solo da una ristretta cerchia di fedeli, un successo sicuramente legato all’esplosione definitiva di Facebook e dei social network in Italia. I suoi video, estremamente lavorati e ben girati, hanno sempre più visualizzazioni, share e like in tutta la rete. Recita un adagio latino: mater semper certa est; e Internet non è che uno dei padri di Immanuel. L’arretratezza culturale in fatto di diritti civili (non) garantiti a certe minoranze, il rigurgito neo-oscurantista, il bigottismo ipocrita che continua a galleggiare sulla superficie della società potrebbero essere altri padri illegittimi che hanno contribuito alla sua affermazione – anche se i fotoromanzi porno degli anni ’90, gli sguardi rubati in edicola alle copertine di Le Ore e di altre riviste softcore con VHS allegati, nonché i cespugliazzi anni ’80 dei filmini di serie D tedeschi sono i risultati dei test Dna che potrebbero sancire la definitiva paternità di questo genere chiamato porn groove.
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Come al solito, l’esibizione di Immanuel è particolarmente curata sotto l’aspetto stilistico e coreografico. I costumi di scena hip/gay sono esaltati dalla stroboscopia e dai flash delle digitali e delle telecamere. Tutti cantano, molti sanno a memoria le canzoni, la totalità pende dalle grandi labbra delle Girls e/o dal petto depilato del Divo. La contagiosa sensazione è quella di assistere, più che ad un concerto, ad un festoso rituale di qualche culto bizzarro, una specie di Waco ((Nel 1993 a Waco (Texas) la setta dei davidiani guidati da David Koresh (nome vero: Vernon Howell) si barricò nel loro ranch, rifiutando di dar seguito ad un mandato di perquisizione spiccato dal Bureau of Alcohol, Tobacco, Firearms, and Explosives (ATF). L’FBI il 28 febbraio accerchiò il ranch, e dopo 50 giorni l’assedio finì con l’incendio dello stabile e la morte di 76 persone, inclusi 20 bambini, 2 donne incinta e lo stesso Koresh.)) dove Immanuel è un David Koresh glam e italiano e i fan sono i suoi davidiani depurati dal fanatismo religioso – questa volta, però, non ci sarà nessun assedio dell’FBI, non ci saranno né morti né incendi, e al limite si vedranno intrecci di lingua, fingering, ritornelli a squarciare gole calde, coca, minorenni e vodka + Red Bull + Jägermeister.
Stacco un attimo gli occhi dal palco, e quando li rimetto incrocio lo sguardo di una delle Beat Girls. C’è qualcosa di strano. Si sta muovendo sinuosamente, a tempo con i diffusori che rimbombano i beat nella sala, le luci a scolpire il suo corpo guizzante e sodo. Mi sta guardando. Sì, proprio così: il suo sguardo è fisso su di me, anche quando è girata di spalle per poche frazioni di secondo. Avverto subito che io e lei abbiamo qualcosa in comune, è come se un cordone ombelicale ci unisse. Improvvisamente la musica rallenta quasi sino a svanire, e il pubblico si volatilizza, i Magazzini sono svuotati e non c’è più nessuno, ci siamo solo noi due, e lei annuisce verso di me e io annuisco a mio volta, e capisco finalmente tutto, ogni cosa mi è chiara, immagino una folle relazione che si svolge tra limousine, champagne, loft tra Parigi, Roma, Berlino e San Francisco, party dissoluti e tenerezza domestica, un figlio destinato a diventare un grosso produttore cinematografico e tanto, tantissimo sesso estremo, ménage à trois forsennati e un amore destinato a bruciare tutto quello che sta intorno a noi, ad accecare le forze del Male e della Paura, perché l’Amore vince sempre sull’Invidia e sull’Odio.
Può esistere un Immanuel Casto inglese? O francese? O tedesco? O argentino? Forse sì, forse no. Il sesso, anche se siamo nel 2010, è un argomento scabroso in tutto il mondo, se si eccettua quello trasversale della pubblicità e quello della pornografia giornalistica – specialmente per quanto riguarda la cronaca nera e rosa. Quello che rende il Divo interessante, oltre allo scarto tra la raffinatezza linguistica utilizzata e la sfrontatezza degli argomenti trattati, è il fatto che in un paese di preti, vecchiacci bacchettoni, politicanti magnaccia e puttane che vanno in giro con registratori, parlare di sesso non è più proibito come poteva esserlo 50 anni fa, ma è estremamente sconveniente, non comme-il-faut e soprattutto è qualcosa che assolutamente non può e non deve essere divertente. La politica del “don’t ask, don’t tell” qui spiega i suoi effetti ben al di fuori dell’esercito, e si applica senza alcun problema anche all’eterosessualità.
Le canzoni di Immanuel non sono certo dei capolavori a livello tecnico: non si ascolta dell’elaborato prog-rock, né si è incantati dai pattern analogici e digitali à-la-Aphex Twin o Autechre; ma è musica dannatamente leggera (una leggerezza quasi arbasiniana), frivola e divertente – a patto che piaccia genuinamente e che si condividano le coordinate entro cui è iscritto il personaggio.
E infatti, come dice lo stesso Immanuel: “Non prendermi sul serio. Preferisco prenderlo sul serio”.
di Blicero de La Privata Repubblica