Provengono da New York i Takka Takka, città globale come la musica di cui si sono cibati fino a traboccare e che adesso rigurgitano in un impeto di onnipotenza stilistica, dosando sapientemente influenze cosmopolite, eclettismi indie-rock, sentimentalismi folk, percezioni africane e fuggevoli percezioni orientaleggianti.
Può tutto ciò mischiarsi andando a plasmare qualcosa di vagamente sensato, evitando leziosi formalismi barocchi?
Certo, anzi, molto di più: “Migration” è un disco che stupisce ed emoziona, ascolto dopo ascolto, grazie all’invincibile forza del sentimento e della passione, che si riversano a piene mani in queste dodici canzoni, morbide come carezze.
I tocchi vellutati di “Silence”, il coinvolgente ed impercettibile crescendo di “Homebreaker”, le percussioni afro di “Everybody Say” e lo sfociare nell’inevitabile delta di intimismi regalati dal trittico “One Foot In A Well”, “Change, No Change” e “You And Universe”.
Con un bagaglio di canzoni del genere nello zaino, per i Takka Takka era praticamente impossibile passare inosservati alle orecchie “ ben istruite” della scena art-rock newyorkese, così in poco tempo si sono sprecati i paragoni con veri e propri dinosauri del folk-rock (Peter Gabriel e Brian Eno su tutti), si sono attivate collaborazioni con artisti affermati (The National, Clap Your Hands Say Yeah, Architecture in Helsinki) e soprattutto è germogliata una crescente stima da parte di colleghi, critica e pubblico.
Il tutto, va detto, è assolutamente meritato.