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White Lies – Ritual

2011 - Fiction
indie/rock/new-wave

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Tracklist

1.Is Love
2.Strangers
3.Bigger Than Us
4.Peace & Quiet
5.Streetlights
6.Holy Ghost
7.Turn the Bells
8.The Power & the Glory
9.Bad Love
10.Come Down

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Quando si ascoltano dischi come questi la prima considerazione che arriva alla mente è: da quando fare successo vuol dire per forza aver imitato qualcosa che ha fatto successo prima? Forse nel mondo dell’arte e della cultura questa cosa è sempre stata in voga, quando c’erano artisti che copiavano i quadri di Picasso o di Van Gogh e li vendevano a prezzi stracciati guadagnando come o più dell’ideatore originale. Ma noi sappiamo che è comunque importante il valore dell’originalità, almeno in un’opera musicale, e quindi valuteremo questo disco in base a quello che in realtà contiene, cioè niente, o quasi.

Ritual arriva a un paio d’anni di distanza dal disco di debutto, che li ha consacrati al successo come band spalla di praticamente tutti (soprattutto nel tour degli stadi dei Coldplay), e come portavoce di un filone new wave revival di enorme successo, quello più commerciale che li ha visti addirittura includere in classifiche del decennio insieme a nomi come Arctic Monkeys, Editors, Interpol e Franz Ferdinand che, se permettete, hanno una levatura molto maggiore.
Perché effettivamente Ritual non è un brutto disco, e non lo sono neanche i nuovi degli Interpol. La delusione sta nel fatto che imitare band che già imitavano i grandi della new wave anni ’80, gli antesignani di un genere che mai si sarebbe pensato avrebbe prodotto una così incredibile serie di emuli e beceri scopiazzatori trent’anni dopo. Eppure è così, e i White Lies lo sanno bene, e con canzoni orecchiabili nonostante il loro mood iperdepresso, riescono a conquistare un pubblico esageratamente esteso ed entusiasta, grazie arefrains molto catchy (“Turn The Bells” su tutte), strutture semplici e ad effetto (“Street Lights”, “Bad Love”), e tanta tanta voglia di vendere di più, ove possibile. Senti la voce baritonale che è ancora più baritonale, levigata e resa vendibile, senti le melodie che sono ancora le stesse ma sono più radiofoniche (nel singolo “Bigger Than Us” in particolare), senti il groove di basso e batteria che incalza proprio nei momenti adatti a scatenare l’interesse dei “fanecchi” degli indie dj-set che stanno rovinando tutta la scena (intrugli di musica che sembrano essere preferiti ai concerti da alcune, permettetemi, categorie di persone che non mi permetto di definire perché mi scapperebbe, forse, qualche insulto di troppo). La produzione non è comunque delle migliori e per quanto ci si impegni a smussare gli angoli alcune imprecisioni di basso e voce rimangono, proprio come nei live. Per il resto, i brani sono comunque tutti sopra la sufficienza, se valutati con il metro dell’orecchiabilità, sottoterra se si volta pagina e si parla di originalità. Si perché essenzialmente, il disco è la replica del primo, con gli stessi punti di forza, e gli stessi punti deboli. Per questo non lo bolleremo in nessun altro modo che così: i revivalisti della new wave ci hanno rotto i coglioni, ma qualcosa nella loro musica ci continua a convincere nell’ascoltarli, come se in tutto quello che l’album contiene ci fossero anche delle sostanze psicotrope che ci impediscono di liberarci dalla loro dipendenza.

Ci si poteva, complessivamente, aspettare che questo titolo più che una dichiarazione d’intenti fosse un semplice titolo; invece Ritual è la definizione giusta per questo album, così rituale da risultare quasi liturgico, con quei coretti da stadio, i suoi cambi di tempo al punto giusto, quasi una fenomenologia di NME e altre riviste di settore (o di moda?).
E’ arrivata l’ora del metadone? O delle “grandi purghe” staliniane, ad hoc.

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