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Il Venerdì Di ImpattoSonoro #22: The Universal Sigh

Prende fiato, e continuerà a prendere fiato, questa universale rubrica dedicata fondamentalmente al nulla. Perchè dopo una settimana e più di fatica, abbiamo bisogno di oziare, parlare di cose di cui parleremmo in un qualsiasi bar sport globale, o seduti su una panchina tra una trentina d’anni, ma più probabilmente anche prima. Oggi si parla di quotidiani e Radiohead.
A cura di Fabio Gallato.

A volte ci piacerebbe che i Radiohead si limitassero ad essere sostanzialmente i Radiohead. A scrivere dischi, dischi bellissimi, sempre e comunque, a scrivere la storia, sempre e comunque.
E invece ci incazziamo, di brutto, per certe trovate, come questo “The Universal Sigh”, il quotidiano dei Radiohead, un giornale vero e proprio, fatto di carta, con gli articoli e tutto. Come tutte le cose chic, non si compra in edicola, ma in alcune selezionate location. In Italia, tradotto chiaramente in italiano, è solo a Milano, più precisamente qui.
Non ne cogliamo l’utilità, è chiaro, ci sembra addirittura un pelino offensivo: mettersi a fare un quotidiano quando l’ultimo disco, “The King Of Limbs”, non è poi sto granchè.
Ma se nella storia del rock c’è una band che ha saputo far parlare di sè, riuscendo a creare un’immagine, un suono, un’anima significativamente riconoscibile è unica, questi sono proprio i Radiohead.
Fanno un disco senza farlo pagare e riescono a farci i soldi lo stesso, ne fanno uno senza dire niente a nessuno e ci fanno i soldi, il loro leader si mette a ballare come un fattone qualsiasi, partecipa ad improbabili meeting nu-rave, e non passa per ridicolo, se ne vien fuori con uscite retoriche che neanche Bono e ci fa i soldi pure così.
Ma se parlassimo solo di contanti, ci perderemmo qualcosa di vitale: questa egocentrica fuga dall’opinione volgare e massificata è senz’ombra di dubbio un’abile trovata commerciale, l’ennesima geniale mossa per creare hype e tuffarcisi dentro senza remore.
Ma è anche un’intuizione geniale, una risposta puntuale e decisa alla strisciante e asfissiante urgenza di novità del pubblico indie, del pubblico del 2.0, al quale a volte basta anche una buona idea riciclata, basta che sia veloce, fulminea e soprattutto qui ed ora, in questa (o quella) nuova dimensione spazio-temporale che galleggia tra i 160 caratteri di Twitter, il qualunquismo di un aggiornamento di stato su Facebook e il giornalismo aperto a tutti di un blog.
E, tralasciando per un po’ quello che trovate su questo giornaletto, su questo sospiro universale (che potete leggere qui sotto o scaricare qui), fatto di alberi, alberelli, finte pubblicità, firme più o meno pregiate, racconti di terre desolate e disegni spaventosi e bizzari, una cosa è chiara.
I Radiohead sono un oggetto, un’entità, una realtà incastonata nella mente di tutti, di chi li ama e chi no, di chi li apprezza e basta, e di chi gli riconosce semplicemente il merito che sanno fare maledettamente bene quello che delle idee andrebbe fatto, cioè insinuarle nelle teste, produrre dubbi, domande, riflessioni sull’importanza della musica, della condivisione, della bellezza, della poesia.
E non è poco, anche se noi fans vorremmo che continuassero a scrivere e riscrivere la storia, quando a volte, e soprattutto qui ed ora, la storia basta capirla e approfondirla.

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