“Ma Kyle lo mettiamo in classifica?”
“Perché? É italiano?”
La recensione potrebbe chiudersi qui, ma – nonostante Stanis La Rochelle la pensi al contrario – pare che non sembrare italiani non sia l’unico requisito fondamentale di un buon album.
L’altra caratteristica “fondamentale” di questi tempi è essere post, anche se come diceva Lindo: “qualcuno ha il post senza essere mai stato niente”.
Kyle (Michele Alessi), invece, è post un po’ di tutto. La sua è una carriera di grandissimo livello, nonostante i gruppi in cui ha militato non abbiano mai riscosso una fama planeratia. Vinsent, Distape, ma soprattutto Captain Quentin e Maisie. Se finora dimostra grandi doti tecniche e compositive, con il progetto solista Kyle dimostra anche grandi abilità cantautoriali.
Il genere principale su cui si svolge l’album è chiaramente il folk, ma ogni brano svolazza su vari generi: c’è il rock quando serve, può esserci qualche tratto punk se è il caso, qualche spruzzata di retro-pop, ma quasi come se i generi non contassero nulla. Piuttosto ci sono vari musicisti e vari strumenti, ce ne sono un’infinità, tanto che a tratti il sound esplode in ritornelli quasi orchestrali in cui ogni strumento si colloca nello spazio che gli appartiene per diritto e completa l’atmosfera di un’opera che non è musicale, ma sentimentale.