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Rella The Woodcutter – The Golden Undertow

2012 - Boring Machines
psycho/sixties

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Tracklist

1. Dead Star
2. Bonobo
3. A Forest Journey
4. Black Universe
5. Leave Your Home
6. Inside Gratitude
7. The Golden Undertow
8. Drugtime Family

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Mentre scrivo il mese di gennaio ha salutato i giostranti, regalando un ultimo ballo con gli spettri del gelo, e febbraio sta lentamente occupando il posto reso vacante dal fratello. Ma nelle mie cuffie l’atmosfera è radicalmente diversa: fuori, la bora spazza impietosa quel poco che rimane della spiaggia poco distante dalla mia finestra, dentro armonie anni sessanta intorpidiscono i sensi, facendo vacillare il senso dell’orientamento. Forse ho un piccolo colpo di sonno……..

Mi risveglio con fatica. America, guerra del Vietnam, proteste, la voce dei cantautori che oggi fanno bella mostra di sé nei musei della memoria.
Ma ecco, qualcuno di diverso, una persona che tutto sommato ha la mia stessa fisionomia, magari è addirittura mio connazionale. Incredibile vero? Nelle pianure del Midwest un altro italiano. Non è francamente possibile. Tuttavia, lo sappiamo, nella dimensione onirica le regole comuni sono labili: nessuno vieta che tale giovane, conosciuto con lo pseudonimo di Rella The Woodcutter imbracci la sua strapazzata chitarra ed inizi a dipanare la sua personale matassa musicale, un insieme composito di ritmi, accordi, provenienti dagli studi di registrazione dei primi Pink Floyd, quelli che si avvalevano della presenza ancor sana del compianto Syd Barrett, il celebre crazy diamond, dai festival sulla costa california, da un malinconia spensierata (che ossimoro!) dall’alternative oggi di moda, ed infine dalle lamentazioni folk e blues, ricoperte di polvere.
Ci presenta in punta di piedi dieci veloci composizioni, agili nella loro disarmante profondità, in cui  la sei corde dialoga costantemente con il basso, relegando le percussioni a brevi capatine, sullo sfondo, discrete nell’eseguire il loro compito, ripetendo in una progressiva dilatazione dei tempi la figura ritmica, quasi una danza tribale lisergica sulla quale, paciosi si adagiano calibrati assoli in pulito, talmente spontanei da non escludere la loro probabile natura “estemporanea”.
Ne è un esempio Black Universe, in cui successivamente alla riflessiva strofa, le dita del nostro corrono prive di freno sul manico, su, su ancora, poi giù, cercando la quadratura di un immaginario cerchio melodico. Più spesso le medesime dita svelano la loro essenza ispirata, andando a tracciare ineffabile arpeggi su poche note di flauto, visioni evanescenti, momenti dell’essere oserei definire questi fugaci intermezzi.  Da non sottovalutare l’espressività del musicista quando impegnato nell’arduo compito che è proprio del canto: far germogliare l’emozione.
Ottiene il risultato tenendo un registro sostanzialmente monocorde, da poeta, soppesando con estrema attenzione ogni singola parola, ogni singola pausa, ogni singola cadenza. Sembra che chieda all’ascoltatore quei tre quarti d’ora di attenzione, quasi fossero un favore personale da tributare ad un amico che ci intrattiene il sabato sera al bar.
Un clima intimo racchiude l’insieme dei brani, da esibizione nata dal nulla, del tipo affine alle serate divenute prime mattine in cui si gettan lì, in pasto ad un pubblico provato dal fumo, dagli effluvi dell’alcool, oppure semplicemente dalla maggiormente sana stanchezza, quattro-cinque accordi aperti, nulla di troppo ostico, ma dall’effetto magico, incantatore.
Raccoglimento rotto bruscamente appena scivoliamo verso l’ultima traccia, la stupenda Drugtime family. Un’entità orientale si aggira per i meandri degli otto, inclassificabili minuti, percuotendo con scarso impegno dei bonghi, mentre note “compresse”, quasi degne di essere annoverata in un disco stoner, pervadono l’aria, in un ciclicità a cui è sinceramente impossibile sfuggire. E’ la prima volta, in tutto il percorso, in cui la distorsione passa da leggera a ben definita, tale da diffondere radiazioni stranianti. Un cantato perduto nel vuoto aggiunge ulteriore pathos ad un episodio già di per sé pregnante, reso aggraziato dalle ricercate armonizzazioni voce-chitarra, veramente d’effetto.
Al termine del viaggio, colpiti dall’inno alle forze celate dell’animo umano, si desidera non doversi svegliare più dal torpore accondiscendente indotto dalla fuga in dimensioni psichedeliche. Un immenso dolore frammisto a nostalgia ci coglie al nostro improvviso ritorno alla realtà. Una scialba giornata di gennaio o febbraio, in cui il turbinare del nevischio conferma la distanza siderale fra il buon Rella ed il paesaggio da quadro di Friedrich che appare superbo oltre il vetro si sostituisce, maledetta, alle placide distese ventose degli States, e ci ruba al nostro nuovo amico, un hobo di passaggio, simile a tanti, intento a compiere saltando da un treno all’altro la traversata del Nord-America.
Dio se il sonno mi avesse dato la grazia di trascorrere qualche minuto in aggiunta, avrei potuto perdermi nuovamente nelle strutture in perenne mutamento del decennio d’oro o di riassaporare, giusto per un istante, quella litania distante, fumosa, confusa…..

Riassumendo, un artista da tenere d’occhio sia per le sue indubbie capacità compositive, sia per la sua estenuante attività live, che lo vede protagonista di svariate date ogni mese, sia per il mondo che attraverso mezzi espressivi piuttosto lineari, riesce a ricreare. Un talento è colui che sublima la qualità in un’opera che non rinuncia ai dettami della semplicità e dell’immediatezza. Rella rientra perfettamente in quest’ultima definizione.

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