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Interviste

Intervista a IL DISORDINE DELLE COSE

Abbiamo raggiunto Il Disordine Delle Cose prima del loro concerto del 16 marzo a Roma: è uscito il 29 febbraio “La giostra”, secondo lavoro della band piemontese.
Abbiamo chiesto a Marco Manzella e Vinicio Virago di parlarcene, di descrivercelo come solo loro possono fare, con le loro sensazioni, i loro sentimenti e i vissuti che li hanno accompagnati durante il periodo creativo di scrittura e di registrazione dell’album.

A cura di Azzurra Funari.

La Giostra: parlatemi un po’ di questo titolo.
Marco: L’abbiamo scelto perché da quel brano è partita l’idea di registrare il nuovo disco, abbiamo scritto quel brano e di lì è partito tutto, compresa l’idea di andare in Islanda: è importante perché il finale di questo testo ci ha indotto a virare verso il nord Europa e verso quel tipo di sonorità.

Come mai l’Islanda?
Marco: Da sempre per registrare, per scrivere e per ispirarci abbiamo cercato il freddo: nel primo disco ci siamo chiusi in una baia di montagna, senza nessun contatto con l’esterno, e questa volta abbiamo deciso di andare ancora più a nord. Penso che il freddo sia più di ispirazione, almeno per come percepiamo noi la musica: lo stesso disco, registrato in Brasile non sarebbe venuto allo stesso modo, ma anche a Milano con 40 gradi…sarebbe venuto sicuramente un disco più “sudato”, in Islanda è venuto più pulito.

Qual è la differenza tra registrare in Italia e farlo all’estero?
Marco: In Italia siamo ancora un po’ indietro: per me se uno vuol fare un bel lavoro deve andare all’estero.
C’è una differenza enorme a livello di approccio verso la musica e approccio verso il gruppo e verso quello che fai: c’è l’intenzione di rendere il lavoro al meglio delle possibilità. L’ambiente che ti circonda favorisce la musica.
In Italia ci sono troppi posti dove la musica è ancora legata al business al “se mi fa guadagnare lo faccio, altrimenti no”.
Se vado a registrare in un posto e ci metto più tempo pago di più, se ho bisogno di qualcosa di specifico pago di più: noi lì abbiamo trovato un altro mondo. Se avevamo bisogno di registrare la sera tardi perché Luca nel brano “Al tuo ritorno” doveva essere da solo al buio, loro ce l’hanno permesso, era la normalità.

L’immagine di copertina: c’è un nesso con il titolo?
Marco: Con il titolo l’unico nesso è che siamo in cerchio. L’immagine ha diversi significati. La verità è che abbiamo fatto questa foto e ci piaceva rendere l’idea del ghiaccio, di essere nudi sotto la lastra di ghiaccio, prigionieri del disco. Ci mettiamo talmente tanta passione che alla fine un po’ prigionieri della musica, del disco e di quello che facciamo lo siamo: per due anni non abbiamo pensato ad altro e penso che per i prossimi due anni non penseremo ad altro, questo disco ci ha proprio imprigionati. Non ci piaceva molto essere noi in primo piano in copertina ma il fatto di essere dentro è rappresentava al meglio tutto questo.

Hanno definito il vostro primo lavoro “fragile”, a me è piaciuta la parte positiva del termine perché in realtà è così: voi come definite questo lavoro? Descrivetecelo voi.
Anche a me piace il termine fragile perché in effetti lo era, il primo è un album molto fragile, fatto delle prime piccole sensazioni che abbiamo avuto insieme, le abbiamo messe nel disco, ed è ovvio che sono fragili e timide ma ci piace anche il fatto che siano contrapposte ad un live che, come vedrai stasera, cerca di essere molto intenso.
Il live, secondo me, deve essere differente dal disco, non deve esserne la riproduzione, deve dare qualcosa in più: se tu già nel disco metti in regia una potenza sonora di un certo tipo, dal vivo sei costretto a ripeterti.
Noi nel disco puntiamo molto alla pulizia, alla ricerca di un certo tipo di sonorità, dei particolari: il disco “La giostra” va apprezzato nei particolari, ascoltato in cuffia, se lo ascolti dalle casse di un computer non ti da la stessa sensazione. Rispetto al primo disco è un lavoro al quale ci siamo dedicati veramente anima e corpo: lo abbiamo creato e prodotto noi, anche artisticamente, e come ogni cosa, quando devi crearla, devi dare importanza anche al contenitore: noi avevamo il contenuto, avevamo bisogno anche di un contenitore adatto e l’abbiamo identificato nell’Islanda, terra di uno dei gruppi che amiamo di più, i Sigur Ros. Siamo andati a chiedere nel loro studio, nella loro sala prove, dove c’è il loro produttore: gli abbiamo dato il provino chiedendo “Possiamo?”. Loro lo hanno ascoltato e riascoltato e alla fine hanno detto di sì, ed è stata per noi una grande soddisfazione. In quello studio prima di noi aveva chiesto di registrare solo Gianna Nannini e non era andata: il fatto di essere il primo gruppo italiano a registrare lì per noi ha significato molto.

Vi siete trovati bene quindi.
Strabene, una cosa che non si può raccontare. Ci sono delle persone stupende, esattamente come le si può immaginare, umili e disponibili.

Questo che descrivi trapela nel video del backstage…
Una cosa particolare è la sensibilità. Loro sono persone sensibili: devi essere te stesso, ti sentivi di non dover mai strafare.
Vinicio: Sono puri, moderati, è anche una questione di cultura
Marco: Fare musica in quell’ambiente così sensibile è stupendo. Mentre cantavo, capivano di cosa avevo bisogno.  Mentre registravo le voci hanno capito che avevo difficoltà, sono venuti a parlarmi, poi hanno fatto uscire tutti, perché avevano capito che in quelmomento per registrare avevo bisogno di essere solo: una sensibilità fuori dal comune.

Due brani strumentali, questi intro molto lunghi: l’importanza che voi date alla cura del suono..perchè vi sentite in primo luogo musicisti più che interpreti?
Vinicio: Nell’ultimo disco i pezzi sono nati strumentalmente, il testo è venuto dopo. Molti pezzi stavano già in piedi per conto proprio, il doverci mettere su un testo in alcuni casi rischiava di appesantire, sarebbe stato un elemento di troppo.
Marco: Alcuni brani sono nati già con la voce e con il testo, ma noi abbiamo tantissimo brani nati da improvvisazioni, da momenti intensi in sala prove, e metterci dentro le parole non era facile: se mi sentivo che dovevano entrare dentro quelle parole, più che altre, e quel significato, allora le mettevo, altrimenti no. Anche nei brani, dove c’è il cantato, è bene che in certi momenti il cantato stia un attimo da parte. Ho passato delle ore in Islanda, mentre gli altri registravano le parti strumentali, andando in giro con le cuffie per cercare di capire se le parole potessero rovinare la musica.
Vinicio: La cosa strana che abbiamo scoperto in Islanda è che il paesaggio è talmente evocativo che non hai bisogno di parole, e lo senti anche nei Sigur Ros: passano tre minuti di brano e non te ne accorgi neanche perché ti stanno dicendo tutto con la musica, ed è talmente suggestivo che con la musica vedi già le immagini che loro vogliono trasmetterti.

Nei vostri testi parlate di sentimenti, chiamandoli con il loro nome, di “brividi”, “pensieri”, “promesse”, “di illusioni” più che di storie concrete: questa capacità introspettiva di parlare di sentimenti, senza farli passare per una storia ti viene così facile?
Marco: Non lo so, a quanto pare sì.
Vinicio: Essendo persone sensibili, sei un po’ più avvantaggiato da questo punto di vista.
Marco: Quando scrivo un testo lo faccio perchè ho una sensazione, un momento particolare, e quello che sto vivendo lo scrivo con le prime parole che mi vengono in mente: quello è ciò che provo in quel momento, una sensazione forte, e se è forte credo sia anche una sensazione comune, che non capita solo a me. Io mi immagino che chi ascolta il disco, se si è mai trovato in una situazione del genere, mi capisce e a me va bene così. Non è un disco per tutti: ci sono persone che possono ascoltarlo e non capirci niente…meglio così… oserei dire…meglio.. Noi ci accontentiamo che quei pochi che lo capiscono, lo capiscano per quello che è davvero e non per altro: se uno riesce a capire quello che noi vogliamo trasmettere, sia con le parole che con la musica, allora abbiamo fatto una cosa in due, noi con l’ascoltatore.
Vinicio: poi magari uno che scrive dei testi e racconta delle storie ha la sua forma. Noi abbiamo questa.  Lui racconta una storia e raggiunge un obiettivo, noi cerchiamo di raggiungerlo così.

Molte collaborazioni, una band in continuo mutamento, ora anche l’arrivo di Mattia Boschi: come mai?
Nel primo disco ci sono tutte quelle collaborazioni perché noi l’abbiamo registrato nello studio dei Perturbazione, siamo stati sei mesi in quello studio.
In quei sei mesi da quello studio sono passati una serie di personaggi, amici: passava Syria e si fermava lì tutto il pomeriggio “Dai, canta un pezzo”, passava Carmelo Pipitone “Dai Carmelo, fai un pezzo di chitarra che lo buttiamo nel disco”. La cosa che è cambiata è che questo disco non l’abbiamo registrato a Torino ma in Islanda, però in Islanda sono passate le Amina e hanno registrato gli archi, è passato Mugison, e ha cantato nel finale di un brano. Per noi suonare è una festa, e ci piace tirare nella festa quanti più amici possibile.

Sto ancora aspettando, autunno, tolgo il disturbo….brani intrisi di ricordi, malinconia e passato…
Beh perché è più facile scrivere quando si vivono questo tipo di sensazioni: prova a scrivere qualcosa quando sei felice, vengono fuori delle canzoni pop. Non è solo provare sensazioni di sofferenza, è raggiungere una certa intensità, una certa emotività che ti consente di poter essere più profondo, non superficiale. Si dice che se tu sei contento, cammini ad un metro da terra, in superficie.

È come se l’avessimo visto nascere quest’album, come se avessimo seguito passo dopo passo i mutamenti, le evoluzioni, i pensieri di questa band che dimostra ancora una volta di essere fragile nella sua forza, come la verità che li contraddistingue.

a cura di Azzurra Funari

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