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Shinedown – Amaryllis

2012 - Ocean Way
alternative/hard/rock

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Tracklist

1. Adrenaline
2. Bully
3. Amaryllis
4. Unity
5. Enemies
6. I’m Not Allright
7. Nowhere Kids
8. Miracle
9. I’ll Follow You
10. For My Sake
11. My Name (Wearing Me Out)
12. Through The Ghost

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Ecco un bel disco rock: di quelli da ascoltare in macchina per intenderci, di quelli da spararsi da soli, mentre l’autostrada avanza inesorabile e semideserta,  uno di quei dischi capaci di fare da colonna sonora  al turbinio di pensieri  quando giungono le prime luci del tramonto e la sera si accinge a risucchiare con sé i turbamenti dei viandanti.

Va bene, lascio da parte le immagini hollywodiane e va bene, sono un fottuto romantico vecchio stampo, ma ehy, il nuovo album degli Shinedown aiuta l’introspezione, talmente è ricco di situazioni ed emozioni così ben confezionate e dal chiaro impatto heartbreaker.
Certo, non esente di tutte quelle raffinatezze mainstream a cui ci hanno abituato le classifiche americane, con Alter Bridge, Nickelback e Daughtry su tutti.
Non per questo tuttavia, il nuovo lavoro di Brent Smith e soci si rivela il solito polpettone fatto per coinvolgere i cuori delle ragazzine, in quanto  in grado di arrivare a chi cerca nel rock, quello vero e sincero, i cojones compositivi.
Prima di tutto, è doveroso fare qualche passo indietro. “Leave a Whisper” e “Us and Them”, i primi due album, furono gli steps iniziali di un gruppo che in seguito, con The Sound of Madness, trovò la sua consacrazione nelle grandi rock-band americane.
Le influenze grunge degli esordi, memorie istintive prenatali,  andarono ben presto stemperandosi a favore di una maggiore ricercatezza nel suono, in cui l’impatto emozionale e melanconico arrivò a connettersi alla perfezione con quello più graffiante, temprato nella roccia.
Questi quattro ragazzi della Florida si sono sempre contraddistinti, rispetto ai loro fratelli d’armi, da una bella forza d’animo e da un carattere forte, laddove il cuore, sofferente e colmo di rabbia, esigeva una presa di coscienza e una forza vitale rinnovata. Un cuore duro insomma, niente a che vedere col melenso vittimismo dei Daughtry ma più vicino alla spontanea e metallica vivacità degli Alter Bridge.
Ora, dopo quattro anni di silenzio spesi in tour mondiali, innumerevoli performance acustiche dilaganti sul tubo, e varie collaborazioni, tra cui cinematografiche (come Diamond Eyes, colonna sonora di quel “capolavoro” per ignoranti The Expendables) gli Shinedown consacrano con determinazione la loro volontà di arrivare tra i  grandi delle charts  e decidono di farlo passando dalla porta principale.
Il risultato infatti non è tanto diverso dalle sonorità del lavoro precedente, ma si evince un songwriting  più studiato e ragionato,  aperto e libero a orchestrazioni, accompagnato da sinuosi tappeti di tastiere e da una certa pomposità in alcune composizioni.
Basti citare “Bully”, coinvolgente singolo pensato apposta per scaldare gli animi negli stadi, o  “For my sake”, nella quale sono ravvisabili le influenze delle collaborazioni con gli Apocalyptica,  o  anche “Through the ghost”,dove gli archi disegnano un’ariosità pop da classifica e diventa tuttavia, a fronte di ciò, l’episodio meno riuscito dell’album.
Il lavoro di ogni singolo elemento concorre all’unità dei brani, ma sugli strumenti si erge, con una prestazione maiuscola e da pelle d’oca, la voce di Brent Smith, vero fuoriclasse dietro al microfono, dotato di tecnica, volume e potenza invidiabili, e costante conferma di essere tra i migliori singers della scena rock moderna, insieme a Myles Kennedy degli Alter Bridge (chiaro parere puramente personale, ma vi sfido a trovare qualcuno di migliore o allo stesso livello di questi due).
L’iniziale “Adrenaline” è la classica song da sparare a tutto volume in macchina, diretta e con quel refrain da cantare lontano da orecchie indiscrete,  e lo stesso vale per  l’agitata e grunge “Nowhere Kids” o la granitica e muscolare “Enemies”,  molto vicina ai Nickelback più hard.
“My name (wearing me out)”  invece si aggiudica la palma di “miglior canzone ansiogena” del disco, irrobustita  da un ritornello così liberatorio e catartico che sembra pensato apposta da urlare in faccia a chi vorremmo cancellare dalla nostra vita.

In definitiva, un lavoro ben fatto, confezionato con tutti i crismi e capace di insediarsi per mesi nei lettori degli amanti del genere.
Tuttavia esiste sempre un MA, ovvero  una facile immediatezza alla base a scapito di quelle pulsioni ferali e genuine presenti nei dischi precedenti ma si sa, più le cose vanno bene, meno si è disposti a rischiare.
Possono piacere, possono dire nulla, ciò nonostante, è innegabile che i ragazzi arriveranno lontano.
Promozione. Senza lode però.
The Sound of Madness è meglio.
Parola di romantico.

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