Ecco un bel disco rock: di quelli da ascoltare in macchina per intenderci, di quelli da spararsi da soli, mentre l’autostrada avanza inesorabile e semideserta, uno di quei dischi capaci di fare da colonna sonora al turbinio di pensieri quando giungono le prime luci del tramonto e la sera si accinge a risucchiare con sé i turbamenti dei viandanti.
Va bene, lascio da parte le immagini hollywodiane e va bene, sono un fottuto romantico vecchio stampo, ma ehy, il nuovo album degli Shinedown aiuta l’introspezione, talmente è ricco di situazioni ed emozioni così ben confezionate e dal chiaro impatto heartbreaker.
Certo, non esente di tutte quelle raffinatezze mainstream a cui ci hanno abituato le classifiche americane, con Alter Bridge, Nickelback e Daughtry su tutti.
Non per questo tuttavia, il nuovo lavoro di Brent Smith e soci si rivela il solito polpettone fatto per coinvolgere i cuori delle ragazzine, in quanto in grado di arrivare a chi cerca nel rock, quello vero e sincero, i cojones compositivi.
Prima di tutto, è doveroso fare qualche passo indietro. “Leave a Whisper” e “Us and Them”, i primi due album, furono gli steps iniziali di un gruppo che in seguito, con “The Sound of Madness”, trovò la sua consacrazione nelle grandi rock-band americane.
Le influenze grunge degli esordi, memorie istintive prenatali, andarono ben presto stemperandosi a favore di una maggiore ricercatezza nel suono, in cui l’impatto emozionale e melanconico arrivò a connettersi alla perfezione con quello più graffiante, temprato nella roccia.
Questi quattro ragazzi della Florida si sono sempre contraddistinti, rispetto ai loro fratelli d’armi, da una bella forza d’animo e da un carattere forte, laddove il cuore, sofferente e colmo di rabbia, esigeva una presa di coscienza e una forza vitale rinnovata. Un cuore duro insomma, niente a che vedere col melenso vittimismo dei Daughtry ma più vicino alla spontanea e metallica vivacità degli Alter Bridge.
Ora, dopo quattro anni di silenzio spesi in tour mondiali, innumerevoli performance acustiche dilaganti sul tubo, e varie collaborazioni, tra cui cinematografiche (come Diamond Eyes, colonna sonora di quel “capolavoro” per ignoranti The Expendables) gli Shinedown consacrano con determinazione la loro volontà di arrivare tra i grandi delle charts e decidono di farlo passando dalla porta principale.
Il risultato infatti non è tanto diverso dalle sonorità del lavoro precedente, ma si evince un songwriting più studiato e ragionato, aperto e libero a orchestrazioni, accompagnato da sinuosi tappeti di tastiere e da una certa pomposità in alcune composizioni.
Basti citare “Bully”, coinvolgente singolo pensato apposta per scaldare gli animi negli stadi, o “For my sake”, nella quale sono ravvisabili le influenze delle collaborazioni con gli Apocalyptica, o anche “Through the ghost”,dove gli archi disegnano un’ariosità pop da classifica e diventa tuttavia, a fronte di ciò, l’episodio meno riuscito dell’album.
Il lavoro di ogni singolo elemento concorre all’unità dei brani, ma sugli strumenti si erge, con una prestazione maiuscola e da pelle d’oca, la voce di Brent Smith, vero fuoriclasse dietro al microfono, dotato di tecnica, volume e potenza invidiabili, e costante conferma di essere tra i migliori singers della scena rock moderna, insieme a Myles Kennedy degli Alter Bridge (chiaro parere puramente personale, ma vi sfido a trovare qualcuno di migliore o allo stesso livello di questi due).
L’iniziale “Adrenaline” è la classica song da sparare a tutto volume in macchina, diretta e con quel refrain da cantare lontano da orecchie indiscrete, e lo stesso vale per l’agitata e grunge “Nowhere Kids” o la granitica e muscolare “Enemies”, molto vicina ai Nickelback più hard.
“My name (wearing me out)” invece si aggiudica la palma di “miglior canzone ansiogena” del disco, irrobustita da un ritornello così liberatorio e catartico che sembra pensato apposta da urlare in faccia a chi vorremmo cancellare dalla nostra vita.
In definitiva, un lavoro ben fatto, confezionato con tutti i crismi e capace di insediarsi per mesi nei lettori degli amanti del genere.
Tuttavia esiste sempre un MA, ovvero una facile immediatezza alla base a scapito di quelle pulsioni ferali e genuine presenti nei dischi precedenti ma si sa, più le cose vanno bene, meno si è disposti a rischiare.
Possono piacere, possono dire nulla, ciò nonostante, è innegabile che i ragazzi arriveranno lontano.
Promozione. Senza lode però.
The Sound of Madness è meglio.
Parola di romantico.
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