“Ci sono tanti modi di intendere la musica quasi quanti sono gli individui che le si avvicinano”
(Luciano Berio)
Eclettico ai limiti del trasformismo, pretenzioso per alcuni, geniale per altri: questo è Mike Patton, un curriculum infinito (anche se ancora esiguo se si pensa al Maestro John Zorn) che unisce i puntini tra sperimentazione e divertissement, sempre e comunque nel solco dell’avanguardia Novecentesca che fu. Ancora una volta stargli dietro concettualmente non è impresa scontata.
Dopo l’omaggio al “bel canto italiano” (“Mondo Cane” ndr) e l’exploit ambient-horrorifico per la colonna sonora de “La Solitudine dei numeri primi”, l’ex Faith No More continua a coadiuvare l’interesse per musica e lingua italica. L’incontro-confronto stavolta è davvero tra titani: sì perché Laborintus II (uscito per Ipecac) è un particolare rifacimento-omaggio-rivisitazione dell’omonima opera di Luciano Berio, compositore ligure scomparso nel 2003 da annoverare tra i massimi sperimentatori ed innovatori del Bel Paese.
Figura estremamente affascinante e ardita, Berio ha esplorato i confini più remoti dell’Universo musicale, dalla colta all’elettronica: il lavoro ripreso da Patton risale al 1965 ed è basato a sua volta su uno scritto del poeta Edoardo Sanguineti, col quale Berio condivideva una profonda empatia artistica in direzione d’una sorta di anti-opera totale tra note e parole.
L’immaginario della suite si nutre in gran parte di suggestioni Dantesche (volutamente, nel settecentesimo anno dalla nascita del Poeta), doppi-sogni catacombali che vanno ad intersecarsi, una fascinazione per l’onirico e le sue stasi, soprattutto poi, la percezione del tempo in una dimensione ultraterrena, l’assenza stessa di tempo nel dolore (come nell’amore?). Lungo i bordi di questa traversata spirituale, tripartita e cadenzata dal recitativo convinto ma non sempre convincente di Patton (il linguaggio è arcaico ma la pronuncia zoppica comunque), largo spazio al free-jazz con le sue pulsioni e i suoi silenzi: balbettii sconnessi non solo del sax ma anche dei gorgheggi femminei, penetranti incursioni dei fiati, tintinnii, voci confuse e rumorismo puro. Accompagnato dal prestigioso collettivo belga Ictus Ensemble, Patton ripropone sul palco, a distanza di quasi quarant’anni, la particolare forma di teatro-canzone che Berio portò in scena allo Holland festival del ’73 presentandosi in scena con una bambola gonfiabile ed una serie di pneumatici usurati. Esecuzioni ed interpreti sono lodevoli, questo è indubbio. Un viaggio vorticoso nel quale ognuno deve trovare la sua via di non-ritorno, come diceva Berio: “Chi ascolta deve rendersi conto che ci sono modi diversi di cogliere il senso di questo percorso”.
La sensazione è che l’esperimento nobile dal punto di vista concettuale risulti, quasi fisiologicamente, meno incisivo rispetto all’originale. L’irruenza primigenia che attraversava il flusso di coscienza di Berio-Sanguineti è irraggiungibile e, in qualche misura, aliena. Riproporla rischia di diventare un esercizio di stile, a seconda dei gusti ampolloso o estroso, ma si potrebbe anche dire che l’operazione va premiata a prescindere sul piano “filologico”: far riscoprire a nuove generazioni di onnivori avanguardisti, musica e pensiero di Luciano Berio, un piccolo tesoro tutto italiano. Una piccola-grande storia d’avanguardia e d’anarchia. Decidete voi se prescindibile o meno nella sua versione 2012.
“Cercare di definire la musica è un po’ come cercare di definire la poesia: si tratta cioè di un’operazione felicemente impossibile. La musica è tutto quello che si ascolta con l’intenzione di ascoltare musica: la ricerca di un confine che viene continuamente rimosso”.
(Luciano Berio)
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