È successo che durante un concerto The Hacienda (from Firenze) e Wemen (from Milano) hanno deciso di fidanzarsi –musicalmente- e dopo aver copulato duro hanno partorito questo disco. Album splittato: 3 tracce a band, e ho un po’ quella sensazione di quando si divorzia e ci si spartisce i figli nelle feste e nei weekend.
The Hacienda partenza in sordina, smoscianti; ricordano i primi lavori degli Yuppie Flu, poi si riprendono lievemente con il secondo brano anche se gli effetti della chitarra smorzano il tutto, riportando il lavoro al livello di tedio iniziale. A tratti sanno alzare il ritmo generale, grazie principalmente ad un buon cantato e suoni esotici, stile Palma della copertina. In generale tendono alla ripetizione, non osano, pur mantenendo un ritmo piacevole non creano esplosioni di entusiasmo.
MA POI.
Boom. Alla terza traccia tirano fuori il baule Beatles cuori solitari e via, e ci sparano una traccia super. “She’s mine” è sporca ed efficacissima, ADORO le contaminazioni più blues che le fanno fare quel saltino da “ok, solita roba” a “merda! Che figata”.
Stacco. Motosega. Carino.
Partono le ultime tre tracce e il disco aumenta il ritmo. Gli Wemen ci mettono più cassa dritta, e gran chitarrone prese in prestito dagli Strokes. Rispetto ai primi lavori c’è grandissima maturità anche nel cantato, che sono riusciti a far aderire meglio a quello che era, realmente, possibile fare. Grandi omaggi a Clash e sottogenere, che però non arrivano mai a farci bagnare le mutandine (o fare venire erezioni). Ma comunque: non male
Un po’ inspiegabile la scelta dell’album a metà: non colgo un unico mood generale, se non, solo in due-tre riff.
Alla fine della fiera, non si sono inventati nulla e l’album in toto si fa ascoltare.
Sarà anche perché sembra di averlo già sentito. Ma è proprio a voler essere dita in culo.
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