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Low – The Invisible Way

2013 - Sub Pop
folk/indie/rock

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Tracklist

1. Plastic Cup
2. Amethyst
3. So Blue
4. Holy Ghost
5. Waiting
6. Clarence White
7. Four Score
8. Just Make It Stop
9. Mother
10. On My Own

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C’era una volta lo slowcore. Poi il suo spirito, svilente nel suo spleen, è svanito e si è perso in vie invisibili tramutandosi, evolvendo filtrando un passato musicale silenzioso. E i Low lo sanno meglio di altri. Mentre le realtà come Codeine e Galaxie 500 hanno cessato di esistere troppo presto, Alan Sparhawk e Mimi Parker hanno deciso di tramutare la loro creatura in corso d’opera, entrando ed uscendo da crisalidi sempre differenti, fino a raggiungere le origini di un suono dalle tinte folk, mai nascoste peraltro.

Passando per Chicago incontrano Jeff Tweedy che li invita (me lo vedo mentre fuma una sigaretta appoggiato al muro e fa segno ai nostri di avvicinarsi, sornione) nel suo studio. E qui comincia a prendere forma l’idea di “The Invisible Way”, decima creazione dei due di Duluth, accompagnati di nuovo dal terzo neanche troppo incomodo Steve Garrington. E il produttore, talvolta, segna le differenze e marca le tendenze. Lungi dall’essere una sterile rima l’esempio sono gli stessi Wilco, che nel periodo in cui Jim O’Rourke ha messo le sue mani emananti noise e disturbo elettrico hanno virato verso una sponda più varia nel loro essere già obliquamente country, così oggi accade ai Low.
Il lavoro di trasformazione già in atto sul precedente “C’mon” (dove le tracce di una collaborazione con l’universo Wilco si facevano tangibili attraverso la presenza delle psicosi di Nels Cline) arriva a totale compimento. Il suono si stabilizza nel passato e lo zampino di Tweedy è più presente che mai. Acusticismi spinti e pianoforte in presenza costante prendono il posto dei crescendo e di un volume che innalzava barriere di tristezza antimaterica. Un bene e un male allo stesso tempo, dove il tocco classico diventa maturità innata e naturale ma che lascia un vuoto difficile da pensare colmabile dalla classe. Basta ascoltare “Amethyst” nel suo trascinarsi indolente sulla chitarra acustica a far coppia con un piano di velluto nero ad introdurre le voci di Mimi e Alan che s’intrecciano in una perfezione giunta ad un culmine quasi apatico, un tocco scarno quello della sei corde che ad inizio pezzo fa da padrona lasciando nel corso del pezzo spazio alle melodie pianistiche. A Mimi piace dar alla sua voce tocchi di gospel intimista e “Holy Ghost” è proprio questo, e la sua vocalità vibranti stregano e portano il pezzo tanto su quanto nei recessi di una spiritualità mai celata (“some holy ghost keeps me hangin’ on/I feel the hands but I don’t see anyone”), le percussioni sono ormai solo un contrappunto, gran casse da opera nel deserto. Qualcosa si muove nel blues acustico di “Clarence White”, in cui Alan arriva a toccare momenti di voce struggente finora, a mio avviso, ad uso solo della consorte, e più va avanti più il canto di questo brano trova un suo crescendo sanguigno in (quasi) chiusura dove il pianoforte pesta più in alto. E a chi manca lo splendore di una “Especially Me”, per quanto inarrivabile, troverà di che compiacersi in “Four Score”, ancora una volta è Mimi a creare intrecci vocali fatti di sangue e luce, e arriva anche un tocco di “elettricità” sotto forma di chitarra semi-acustica che cammina in punta di piedi accanto alla voce, presenza che accompagna anche la, fin troppo, “wilchiana” “Just Make It Stop”, un tocco pop a ritmo sostenuto che dà quel minimo di movimento ad un disco che tende a restare troppo in medias res, e che diventa, traccia dopo traccia, il punto debole di qualcosa che potenzialmente potrebbe segnare qualcosa di “nuovo”. L’ultima sorpresa, e una delle poche c’è da dirlo, sta nel mezzo dei classicismi country di “On My Own” dove compare, come fosse un golem di cavi scoperti, una chitarra distorta e pregna fino all’orlo di un crunch abrasivo che fa coppia con una batteria sul limitare di un “doom indieficato” (neologismi casuali) e che accompagna fuori dalla sonnolenza, ma giusto quel poco per non farci cadere dal letto.

In definitiva i Low lasciano pascolare questo lavoro nella terra di nessuno, in una fase rem di un percorso fatto d’intensità solo a loro possibili, forse un tramonto, di certo non un risveglio, ma neanche una morte prematura, nelle mancanze struggenti di qualcosa di implosivo che han fatto di “C’mon” uno dei dischi che più mi sfondano il cuore resto in attesa di un nuovo passo avanti (o indietro).

[youtube]http://www.youtube.com/watch?v=Bk07lcsYPNo[/youtube]

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