E’ il Lanegan più acustico e intimista, quello che emerge, con la solita malinconica bellezza, dai microsolchi di Black Pudding, album composto a quattro mani col chitarrista londinese Duke Garwood, che certamente ha avuto molta voce in capitolo, nel delineare i contorni agresti e serotini di questi brani, ben differenti, per forma e sostanza, dal precedente Blues Funeral.
Come lascia subito intuire il delicato fingerpicking di Garwood, Black Pudding è un disco essenziale e rarefatto, come un caldo fuoco di bivacco nel mezzo di un ipotetico crocevia desertico fra il blues e il folk cantautorale, nel quale la voce di dark Mark fa danzare ombre di ricordi perduti (War Memorial), privazioni (Death Rides A White Horse) e smarrimenti (Mescalito), in un vivido diario autobiografico di narrazioni in movimento.
A parte rare eccezioni (Cold Molly) i ritmi sono lenti, gli arrangiamenti minimali, ma proprio per questo riescono ad arrivare direttamente al cuore (dopotutto lo stesso Garwood ha paragonato Lanegan a John Coltrane: pura anima e suono), comunicando tutte le inquietudini interiori che il cantante americano ha sempre espresso, in carriera come nella vita.
Black Pudding è una spoglia frontiera, molto mccarthiana, nella quale l’apparente quiete sonora non significa per niente relax, quanto piuttosto un’obbligatoria parentesi meditativa (non necessariamente serena), ispirata e animata dalla tradizione musicale bianca (folk) e nera (blues), entrambe presenti nel DNA di questi due grandi artisti, interpreti di un disco forse non immediato e nazional-popolare, ma certamente denso di significato e qualità.