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Non c'è più il jazz di una volta

FLAT EARTH SOCIETY: Non c’è più il jazz di una volta (e sticazzi?) #2

jazz

Il jazz incravattato, impomatato, vecchio e sdentato.
Il jazz raccontato da chi nel club va ben vestito e pettinato.
Il jazz che copia paro paro i bei fasti di una volta.
Il jazz che non fa rivolta. Le buone maniere di chi non osa, e le cazzate sue mette in prosa.
Il jazz di chi vuol star comodo in poltrona.
Il jazz di chi, per raccontarlo, di inutilità fa una maratona.
Tutto questo qui non troverete. Solo il disagio dell’obliquo – vi sembrerò iniquo – vi racconterò.
Ciao.

“Topo Gigio sei veramente fortissimo! Potresti venire a distruggere un concerto jazz?” “Sì, certo. AAA” SDRSH.

Avevo voglia di parlarvi dei Flat Earth Society. Ma non posso farlo. In realtà vi parlerò di altro. O meglio, delle origini di questa big band dal Belgio con furore. Le origini hanno un nome, e il nome è Peter Vermeersch: clarinettista atomico, compositore eccitante e sperimentatore senza posa. E se questa storia ci porterà al jazz non sapremo bene da che parte esser girati. Perché qui si parla di disagio, disagio bello, of course. Belga, classe 1959, inizialmente non è proprio sulla musica che si butta ma sull’architettura. E, dite quel cazzo volete, ma si sentirà nelle sue composizioni come vera influenza primaria. Diventerà questo: un architetto di musica multistrato, complessa e dalle mille personalità.

Peter-Vermeersch-PEN

Ma la sua musica è tutt’altro che scolastica. Si gingilla con diversi ensemble fino a che, nel 1988, fonda una creatura tanto bella quanto dimenticata chiamata X-Legged Sally. Inizialmente la band esiste per suonare le composizioni del clarinettista e basta, ma si ritrova ben presto ad essere un vero e proprio ensemble di smarionettati che tirano magnole al calor progressivo sui loro strumenti. Tra di loro troviamo il buon Peter Vervloesem (altro compositore fuori dalle righe che tornerà nella nostra storia) che della chitarra fa pezzettini piccoli piccoli da metter sotto la lingua.
”Slow Up” è l’esordio di questa macchina macinaossa ed è prodotto, guarda un po’, da messer Bill Laswell, che tutto sulle sue non è. Gli strumenti in gioco non sono propriamente quelli di una band progressive, ed è da qui che l’amo per il jazz viene lanciato. Dicevamo, gli strumenti coinvolti: chitarra, talvolta voce (Vervloesem sings for us), sassofoni di varia entità, clarinetto, synth, batteria, basso. Insomma: disastro. L’unica composizione a nome Vervloesem sul piatto è una canzone a cui Zappa avrebbe voluto bene, ascoltare please, digitare su YouTube “Bacon & Eggs” e godere. Il disco contiene tutti gli elementi chiave di ciò che sarà: ci sono le progressioni disumane di chitarra, il ribollire di stomaco dettato dal basso prepotente, i fiati che armonizzano il tutto con furia, e il germoglio dei Flat Earth Society è pronto a schiudersi, ma c’è tempo.
Mentre se ne vanno in giro a seminare progressioni brutalizzanti i nostri due compositori di male trovano anche il tempo per produrre giusto un dischetto, nel 1994, e questo dischetto porta il nome di “Worst Case Scenario” e la band che lo suona porta il nome di dEUS.

Avanti tutta, quindi, fino al 1997 quando gli XLS cessano di esistere. Tempo tre anni e Vermeersch riunisce una banda niente male e la battezza a nome di Flat Earth Society e fa uscire un dischettino che riprende il filo del discorso da dove l’avevano lasciato gli XLS, l’album si chiama “Bonk”, alla chitarra non c’è Vervloesem ma è comunque una cannonata.
Ad entrare in gioco è l’elemento “ciao siamo una big band”, che però è da prendere con dei pinzoni di piombo anche se c’è un’intera cannoniera di fiati tra tromboni, trombe, tuba, clarinetti e sax che ciao proprio. Ma l’elemento elettrico e progressivo non se n’è andato, né mai se ne andrà davvero, forse si diluirà nel disastro, ma tant’è. Il primo disco dei FES si chiude in allegria: due belle cover dei The Residents (“Skinny” e “The Electrocutioner”), tanto per gradire. Giustamente una ensemble di smadonnati come “standards” poteva adottare solo le canzoni dei padri del malanno mentale. O zii, se come compositore preferite Francescone Baffone Zappa, ma tanto sappiamo che anche in quel caso c’era il suo zampino. 

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Gli anni passano, il disagio sale in cielo e i dischi aumentano. I Flat Earth Society prendono a calci in culo l’idea di musica che può produrre una big band ancora e ancora, e i calci si sprecano anche sul versante modale e dell’incravattamento. Questo è free-bigband-non-jazz.
E allora nel 2003 i Nostri si dedicano allo smembramento e al riassemblamento atonale di uno dei padri del jazz tutto ossia Louis Armstrong. L’album in questione è, manco a dirlo, “The Armstrong Mutations” e contiene perle disumane di Stachmo riviste con gli occhi del mostro. “St.Louis Blues” che diventa una membrana tentacolare è un brano da divorare lentamente e ripetutamente.
E arriviamo fino al 2004, anno in cui un certo Uri Caine pensa sia giusto avere a che fare con Vermeersch e soci e decide di andarci in tour insieme e, perché no, collaborare su un loro disco, scrivendo un pezzo per i Nostri. Il gioiello in questione è “Psychoscout” e il brano è Snaggletooth, in cui futuro e classica intenzione d’insieme ballano a ritmo indiavolato sulla batteria. Le dimensioni della situazione s’ingrossano per i Nostri. Anche sir Mike Patton si accorge della loro presenza (anche ingombrante se volete..è una big band) e decide di compilare con le sue sagge e ferme (?) manine da smadonnato una raccolta dei FES e così ci ritroviamo tra le zampe “Isms”, che esce proprio per la sua Ipecac. E pian piano, Peter Vermeersch, manco fosse il pifferaio magico (ma forse lo è), ci porta, attraverso gli anni e diversi stupendi album, nei meandri della sua ultima creazione…

Flat Earth Society – 13 (The Most Unreliable Music Since 1999) (Igloo-2012)

fes

Cosa pretendete da un ensemble così grondante follia? Ecco bravi. Pretendete più delirio. E questo è il lavoro più fottutamente “alto” di tutta la carriera dei Flat Earth Society. I fiati sono caldi e anche il malanno brucia sottopelle, il viaggio è lungo. Quando entra in gioco la voce troviamo il degenero delle situazioni: “Raincheck” è Tom Waits fuso al suo figlioccio Les Claypool che ogni tanto si lanciano in inflessioni linguistiche degne del più sconclusionato ubriacone da osteria balcanica accompagnato dalla banda di paese più disordinata e scassatimpani di tutti i tempi, mentre in “Patsy” Vermeersch introduce la danza con un adagio di clarinetto da star male e poi via di Frank Sinatra e orchestra al codazzo tutti in acido. E allora salutiamo anche Frank Zappa (Yellow Shark era. Ci sarà lo zampino del chitarrista Vervloesem? Potete giurarci, sparatevi il bridge di chitarra drogata nel bel mezzo del cammin) nella fulminante chiodata futurista di “Experiments In The Revival Of The Organism”.
E per la serie “rifacciamo i classici come nulla fosse e facciamoli con un suono grosso così?” ecco arrivare “Stoptime Rag”, Scott Joplin vi dice nulla? Bravi di nuovo. Impalcature imbevute di hard-bop al fulmicotone che diventa sangue da marching band post-atomica su “Betwixt & Between” con la sordina sulla tromba della follia volerete. Ancora non vi basta? Allora eccovi l’industrial che si accoppia sotto i vostri occhi di “Meet Luke Devereaux”, legni, metalli, suoni elettrospastici, fiati abbomba, e tempi stralunati. Ma il resto, ce n’è in avanzo nonostante la pappardella del cazzo, lo lascio scoprire a voi. Entrate nel clan della Società della terra piatta.

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