Mogwai. Ogni volta è così. Ogni disco è come un primo appuntamento con l’universo. Un cosmo che risuona e si ripiega su se stesso, e si espande, e mi abbraccia. Mogwai. Quando il post-rock esagera, quando la gente abusa di questo epiteto voi tornate, e scombinate tutte le carte in tavola. E riportate la calma.
“Rave Tapes” è il passo avanti in una dimensione differente, una dimensione a sé stante, di cui solo i Mogwai hanno la chiave. Mentre tutti sfoderano le solite chitarre eteree in un campo di nulla i cinque scozzesi invertono la rotta e disintegrano ciò che già c’è. La musica nascosta in questo album è post. E basta. Post, dopo, oltremusica, come se si generasse al di là degli strumenti e senza parole ci raccontasse mille miliardi di milioni di storie, tutte diverse, tutte legate, come fossero i Neil Gaiman del suono, e provate a dire di no.
Tacciatemi di eresia, ma qui si è oltre “Mr.Beast”. Tacciatemi d’eccesso d’entusiasmo. Non importa. I sintomi dance/garage nineties dalla terra d’Albione, aspri e disgreganti, aggressivi e falcidianti di “Remurdered” aprono le porte ad un paradigma elettronico ipnotico che si estende nel basso sintetico che divora il crescendo di “Deesh” e si estende in un’apertura epica in onde circolari in cui sei corde e tasti diventano un tutt’uno col cielo e fanno prima male al cuore e poi lo curano per poi gettarci nell’onda grigia di “Blues Hour”, acustica, pianistica, delicata dal soffio malinconico e dall’esplosione di seta che racchiude un cantato sensibile ed extraterrestre. E se “Heard About You Last Night” fa da etereo ponte tra il passato e il presente aggirandosi tra le strade di una città pervasa da campanelle e sintetismi, con il basso che divora l’asfalto bagnato, “Simon Ferocious” delinea il passaggio all’acido coi suoi synth urticanti e l’incedere indolente di un giro d’accordi che torna e torna e torna e torna ancora, fino alle aggressività soffuse e lancinanti di “Hexon Bogon” e “Master Card”.
Ancora Mogwai, ancora.
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