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Marissa Nadler – July

2014 - Sacred Bones / Bella Union
folk/songwriter

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Tracklist

1. Drive
2. 1923
3. Firecrackers
4. We Are Coming Back
5. Dead City Emily
6. Was It a Dream
7. I've Got Your Name
8. Desire
9. Anyone Else
10. Holiday In
11. Nothing in My Heart

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Dato il mancinismo, Marissa, per gioco o per vanteria, dichiarò tempo fa che il suo perseverare nello studio del fingerpicking, nelle notti insonni dell’adolescenza, l’hanno resa unica e in parte è vero.

Visti da una prospettiva di ascolto scevra da certi dettami americani e non (chanson, countrypolitan, sad ballad, old time e sacrale), i ricami cameristici di Marissa Nadler, soprattutto nei primi lavori da Ballads of living and dying in poi fino all’omonimo di tre anni fa, soffrono su telai mistici come sugli orditi wyrd. Quell’insistito lavorio sulle maniere e sugli orpelli può, ieri come oggi, essere inteso come la scaturiggine di un accumulo d’arte, la segnatura di un sudore che vuole rivelarsi poetico e forse è questo, più che la tecnica, a dettare le regole del suo gioco. Pittrice in primis devota all’art nouveau di Mucha come ai “nascondigli” di Verbena, Marissa trovò nel cantautorato lo sfogo per ciò che il suo animo desiderava esprimere e lo fece rivolgendo naturalmente lo sguardo alla poesia e all’arte a lei più cara.
Premesso ciò è facile giungere ad abbrivi comodi come “si dà più valore etico al contenitore più che al contenuto” o peggio ancora “troppi spazi concessi a circolari svolazzi da soprano”per via magari di una certa spettrale attitudine ad un revival per il primitivismo sia a sinistra che a destra rispetto all’oceano atlantico. Da un decennio esatto la cantautrice nativa di Washington ci dimostra come poter cambiare registro al netto di forma e sostanza e poter trovare comunque soluzioni diverse, ma pur sempre concrete, alle tiritere di un canto scritto; a dimostrazione di ciò vale la pena ricordare il precedente lavoro, edito per Box Of Cedar, the Sister, dove Marissa sceglieva il pop, magari masticandone meno le leggi, donando di recupero ad esso sempre maggiore languore evocativo (l’eco spazzolato nella frase cement around the heart in Wrecking ball company) nelle atmosfere, nei cori, nell’asciuttezza delle vibrazioni e, sopra ogni pensiero, un’ idea di iato di questo genere: sbattuta la porta in faccia di nuovo/ sei più vicino a me che alla mia pelle /tu sai che questo freddo è così forte e che le parole si vestono leggere.
Una sensibilità, la sua, che non ruota mai sullo stesso asse, una poetica che vuole andare oltre l’autocommiserazione. Quest’ultimo lavoro edito da Bella Union e Sacred Bones ci riconnette a Marissa dopo due anni di riflessioni leggere per l’appunto.

July appartiene alla sua pelle come i tratti al viso, risuda ancora quel tenero limitare, quel velato spasmo che cresciuto si è presto distratto il tanto che basta per capire una parte del mistero che lo accerchiava, ed eccolo nuovamente il tutto che non sembra mai finire, come accade ascoltando autori quali Lichens ad esempio. La sulfurea Firecrackers imperlata dal pedal, la concentricità di Dead city Emily in cui torna a vincere la spettralità e l’isolamento, il livore teatrale di Was it a dream, strinato dai livelli e dal diffuso della chitarra elettrica, le distanze di Desire (hai avuto occhi per me/hai sbagliato tutto/stavo per credere/che avevi voglia di me) stabiliscono portandoci per mano tempi e campiture di un’autrice che ormai fa scuola.

[youtube]http://www.youtube.com/watch?v=G_KVavjkdTs[/youtube]

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