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Interviste

Intervista a MARCO MACHERA

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Se non avete ancora sentito parlare di Marco Machera (e soprattutto ascoltato un suo album) è tempo di rimediare. E’ il momento giusto con Dime Novels, uscito lo scorso gennaio. Abbiamo colto l’occasione anche per conoscere questo giovane artista -che mischia raffinatamente rock e prog e vanta collaborazioni con musicisti del calibro di Pat Mastellotto (King Crimson) e Tony Levin (Peter Gabriel, Yes…) – e il suo mondo musicale attraverso le sue stesse parole.

Perché la scelta di cantare in inglese? Farai mai un album in italiano o alcuni brani?
È prima di tutto una questione di background (ecco, ho utilizzato una parola inglese!). Sono cresciuto ascoltando i grandi gruppi del rock anglosassone, l’hard rock e l’heavy metal. Quando ho cominciato a comporre le prime canzoni, mi è venuto quasi istintivo scrivere le parole in inglese, mi ritrovavo a pensare le melodie in quella lingua, ed è quello che accade ancora oggi. In secondo luogo, c’è la questione della fruibilità. Intendiamoci, la lingua italiana non è necessariamente un limite (si pensi alla grande tradizione del rock progressivo nostrano, molto apprezzato all’estero), però una proposta ad ampio raggio come la mia potrebbe risentirne. L’inglese offre l’opportunità concreta di arrivare a un pubblico più vasto. Detto questo, non escludo in futuro di comporre qualcosa in italiano, anzi, ci stavo pensando proprio di recente. Mi piacerebbe scrivere canzoni in diverse lingue.

 So che sei stato intervistato da Team Mick Karn di Penelope, che si occupa di preservare l’arte e la memoria di Mick Karn, leggendario bassista dei Japan e poi membro dei Dalis Car insieme a Peter Murphy. Che influenza ha avuto Mick Karn in questo album? Personalmente mi è sembrato di intravedere delle influenze dei Japan in The Sky e Out of the blue.
Non saprei definire esattamente l’influenza di Mick Karn su queste nuove canzoni. Posso affermare che si tratta di uno dei miei bassisti preferiti in assoluto, per personalità, creatività e stile. Ci sarà sempre un po’ di Mick Karn in quello che faccio, l’ho ascoltato così tante volte (in particolar modo il progetto Dalis Car che hai menzionato) da aver assorbito alcuni elementi del suo modo di suonare e comporre. È così per molti degli artisti che ammiro, entrano a far parte del mio DNA, certe loro caratteristiche si riversano naturalmente nelle cose che scrivo.

Una domanda classica: quali sono i tuoi riferimenti musicali?
La lista è in continua evoluzione. Ultimamente sto ascoltando tanta musica italiana: Franco Battiato, Alice, Andrea Chimenti, PFM, Area. Ma anche produzioni più recenti, come i vari progetti di Lorenzo Feliciati su RareNoise Records o il bellissimo album di Andrea Faccioli (aka Cabeki), “Una Macchina Celibe”. Più in generale, tutto è cominciato grazie a band come Iron Maiden, Deep Purple, Pink Floyd, Rush, solo per citarne qualcuno. Con il passare degli anni ho allargato gli orizzonti, mi sono avvicinato alla new wave, a tutto l’universo Japan che hai citato prima (quindi David Sylvian, Mick Karn, Richard Barbieri, Steve Jansen), fino ad arrivare ai King Crimson, un inossidabile punto di riferimento. Adoro Peter Gabriel. I Talk Talk, Tears for Fears, XTC, Talking Heads, Police, Thomas Dolby. I Beatles, senza dubbio. Potrei andare avanti per ore!

Penso che tu sia una delle voci più interessanti nel panorama italiano, anche se canti in inglese, per questo vorrei chiederti: Che ne pensi del festival di Sanremo e, se facessi un brano in italiano, ci andresti?
Se ci andassi, sarebbe solo a scopo promozionale. Onestamente, non avrei nessun tipo di riverenza per la manifestazione, per la sua storia e la tradizione. Sanremo non ha mai rappresentato nulla per me, sembra tutto fuorché un contenitore musicale. È un grande varietà, è televisione. Inoltre, se anche componessi un brano in italiano, credo sarebbe parecchio distante dai canoni sanremesi.

Il video di Ugly Song è stato realizzato grazie al supporto dei fans su MusicRaiser. Pensi che questo sia il futuro della musica?
No. Penso sia un fenomeno destinato a esaurirsi. Lo dico con amarezza: il crowdfunding potrebbe rappresentare una risorsa utilissima per gli artisti emergenti, specialmente in un contesto storico nel quale l’appoggio delle etichette e dei management è pressoché nullo. Purtroppo ho potuto constatare in prima persona quanta diffidenza ci sia verso questa realtà, molte persone non vedono il crowdfunding di buon occhio, anche se continuo a non capirne il motivo. È vero, molti ne hanno abusato (anche artisti di una certa fama), spesso si utilizza questa risorsa senza criterio, e ovviamente a rimetterci è chi ha veramente qualcosa di buono da offrire. Io ho faticato moltissimo a raggiungere l’obiettivo, ma era tutto molto trasparente, equo. Ho messo a disposizione la mia arte, quello che so fare meglio, e penso di aver realizzato un prodotto di qualità (invito tutti a guardare il video di “The Ugly Song” su YouTube). Sarebbe stato un vero peccato non poter realizzare il progetto, perché precludersi la possibilità?

E cosa ne pensi di un servizio come Spotify che è stato duramente criticato da molti grandi nomi della musica internazionale?
È una questione spinosa sulla quale non sono ancora riuscito a farmi un’idea precisa. Indubbiamente è una vergogna che gli artisti percepiscano delle quote così basse per la riproduzione dei propri brani. Questo fa male perché la nostra categoria sta perdendo valore professionale. La musica è una cosa seria, non esiste solo il musicista della domenica. C’è chi lo fa di mestiere, chi paga le bollette facendo concerti, registrando, componendo. La mie canzoni sono su Spotify, in tanti mi dicono di averle ascoltate da lì. Spero solo che si sentano invogliati a comprare il disco. Come ho già detto altre volte, è importante farsi conoscere, essere ascoltati, ma è altrettanto importante ricevere il supporto del pubblico, è vitale. Solo così saremo in grado di produrre nuovo materiale e di proseguire il nostro percorso.

Quando e come hai capito che fare musica era la tua strada?
È accaduta una cosa che mi ha segnato indelebilmente, quando avevo sei anni. A ripensarci mi viene da ridere, ha più che altro un valore simbolico e affettivo. Nel 1992 i miei due fratelli più grandi presero i biglietti per un concerto degli Iron Maiden. Furono accompagnati dai nostri genitori, che portarono anche me. Io, mamma e papà rimanemmo fuori dal palazzetto ad aspettare, entrarono solo i miei fratelli. Nel tardo pomeriggio arrivò il tour bus della band. Sfilò davanti a noi, e alcuni componenti dei Maiden si affacciarono dai finestrini per salutare la gente. Incrociai lo sguardo del bassista, Steve Harris, che mi fece una linguaccia e poi sorrise. Beh, ricorderò quell’episodio finché campo. In quel momento, capii che avrei fatto il musicista per tutta la vita.

Perchè hai scelto il titolo The Ugly Song? E Dime Novels?
“The Ugly Song” è una provocazione, parla di una brutta canzone che vorrebbe essere bella… o viceversa. È un testo nato dalla frustrazione provata ascoltando certe stazioni radio o guardando MTV. Ma quello è solo un aspetto della questione, la mia critica è molto più ampia: riguarda lo stato della musica oggi, di quanta staticità ci sia nei gusti degli ascoltatori, di quanto sia difficile lasciare da parte la riverenza che si ha per il passato, per un certo immaginario che non esiste più. È colpa anche dei media, indubbiamente, che spesso e volentieri ignorano totalmente quanto di buono accade nel sottobosco, e magari ti propinano l’ennesimo articolo sulla presunta morte di Paul McCartney. Potenzialmente, a quanti potrebbe piacere “The Ugly Song”? Io penso, senza falsa modestia, a un mucchio di persone. La triste verità è che non arriverà a quel mucchio di persone, perché non c’è nessun interesse a farla arrivare da qualche parte. Ho voluto realizzare un video proprio per rimarcare questo messaggio, per non lasciarlo morire nel nulla. Chi ha orecchie (e occhi) per intendere, intenda.
Per quanto riguarda il titolo dato all’album, “Dime Novels”, ho preso spunto da un fenomeno letterario americano di fine ottocento. Le “Dime Novels” erano dei romanzi brevi, costavano un dime, appunto, pochi centesimi. La qualità delle storie non era granché, erano definiti “racconti da quattro soldi”, spesso scritti da autori che si nascondevano dietro pseudonimi, giusto per guadagnarsi qualche dollaro in più. In questo senso, il mio è stato quasi un understatement: intitolando così il disco ho sminuito la qualità del lavoro, in maniera ironica. L’ho fatto principalmente per stemperare la tensione legata alla seconda prova in studio. Il mio primo album, “One Time, Somewhere” (uscito nel 2012) è andato piuttosto bene; durante la realizzazione di “Dime Novels” ho avvertito una certa pressione, proprio perché il secondo disco è sempre molto difficile, deve rispettare certe aspettative. Allora ho preferito non prendermi troppo sul serio.

Cosa vuoi comunicare con la tua arte e quale pensi sia oggi il ruolo di un artista che come te canta e fa musica, nella società?
Non ho niente di particolare da comunicare con la mia arte. Voglio solo comporre e suonare buona musica. Purtroppo il ruolo dell’artista nella società è marginale, anzi non è contemplato: io mi sento completamente tagliato fuori. Ovviamente non dovrebbe essere così. La musica è importante, la cultura è un dono prezioso che dovremmo valorizzare e nobilitare. Invece, molto spesso, parlando con le persone, sembra quasi che ci si debba giustificare di essere un musicista. Quando dici di essere un musicista di professione scatta il panico. Le sopracciglia si aggrottano, le facce si scuriscono. Ti chiedono quanto guadagni, come sia possibile che tu lo faccia per vivere, se hai un altro lavoro. Insomma, vieni umiliato nel profondo. Non c’è rispetto, è questa la cosa più triste in assoluto.

Hai collaborato con artisti grandissimi; qual è il ricordo migliore che conservi di queste collaborazioni?
La collaborazione più gratificante è senz’altro quella con il batterista Pat Mastelotto, che va avanti da diversi anni. Con il tempo siamo diventati amici: Pat è davvero una persona squisita, con un grande cuore. Rimasi colpito dal suo modo di suonare la batteria guardando il DVD dei King Crimson “Eyes Wide Open”. È un batterista potente, ma anche raffinato, creativo, ha un grande sound. Quando nel 2009 riuscii a stabilire un contatto con lui, stentavo a credere che avrebbe registrato qualcosa per me. Ricordo ancora la felicità quando mi inviò le prime tracce per il brano “Stories Left Untold”. Fu una sensazione bellissima ascoltarlo suonare su una mia composizione. Ed è stato ancora più emozionante esibirsi sullo stesso palco, in più di un’occasione. Sono anche molto contento della collaborazione intrapresa con Francesco Zampi, grande produttore e arrangiatore, nonché ingegnere del suono, il cui aiuto si è rivelato indispensabile nella lavorazione dei dischi che ho realizzato finora.

Quale tuo brano sceglieresti per rappresentare il tuo modo di fare musica?
Probabilmente il brano più rappresentativo è “Days of Summertime”, tratto dall’album “One Time, Somewhere”. Contiene un po’ tutte le caratteristiche del mio modo di fare musica. È sognante, malinconico, variegato nei suoni ma orecchiabile. Penso di essere riuscito a scrivere una canzone pop di qualità.

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