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VERDENA – Urban, Perugia, 18 aprile 2015

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Diciotto aprile duemilaquindici, Perugia: anche stasera se n’è venuto giù l’immenso. È il secondo concerto dei Verdena che vedo nel giro di due mesi. Il primo, a Catania, è stato un massacro: in fila fuori dalle sette del pomeriggio, riesco a posizionarmi solo in terza fila (che nel corso della serata è diventata quarta). Arrivo al locale che sono l’unica, stanno facendo il sound check. Riesco ad entrare e a seguirne un pezzetto. Suonano Angie, Non prendere l’acme Eugenio. La Sammarelli saltella e sorride, Luca è alla solita postazione, Alberto si mangia il microfono. Devo uscire, li sento comunque da fuori. Giuseppe Chiara, il nuovo tastierista prova il microfono e ripete uoh, uoh. A suonare con uno come Alberto Ferrari urlare diventa una cifra stilistica, che ve lo dico a fare.

Inizia ad arrivare qualcuno. Alle ventuno cominciano a farci entrare. Il locale è praticamente vuoto, tutti hanno preso il biglietto e sono andati via per riempirsi la pancia. Ché i Verdena sono i Verdena, ma la fame è fame. Io mi avvicino al palco, e sento la Cavalcata delle Valchirie nelle orecchie, mi pare di essere seguita dalla Compagnia dell’Anello e per poco non mi volto indietro per capire se ci sia ancora Gandalf o sia rimasto intrappolato nella fila fuori che intanto s’è ispessita. Sono al centro, davanti al palco, davanti a me luci blu e tutta la strumentazione, dietro di me oscurità e qualche birra ambrata che sembra muoversi sospesa ogni tanto. Aspettiamo fino a mezzanotte. Qualche minuto dopo, nessuna Cenerentola all’orizzonte, solo il locale stra-pieno. Li vediamo, scendono giù e salgono sul palco. Ci salutano, poi partono con Ho una fissa, la canzone che inizia ogni concerto di questo tour. Essendo in prima fila riesco a vedere la scaletta , prima ancora di sentirla.

Chitarra elettrica, luci tiepide, bianche. Ci aspetta il buio vedrai. Continuano con Un po’ esageri, e son già tutti a pogare. Per un attimo penso che sarà difficile uscire illesi da questo live. Fisicamente, intendo. Per il resto lo spero vivamente, di uscirne lesa. Ché con quelle schitarrate ti graffiano, i Verdena. Ti fanno sbattere contro alle note cupe dell’Hofner, ai suoni ovattati della batteria elettronica. Fanno un salto indietro, tirano fuori Loniterp da Wow. E sudiamo già tutti. Tendono la corda al massimo, si spezza quasi, con Derek. E poi la chicca che non ti aspetti, la pennata sulle corde che ti fa sussultare, il vinile che s’inceppa e poi riparte suonando meglio di prima: Il Tramonto degli Stupidi. Dall’album Solo un grande sasso, del duemilauno. Ed è subito quarto ginnasio, entrate alla seconda ora, quattro fisso in greco. Siamo esaltati, ma ci aspetta ancora un altro pezzetto di adolescenza. Io quella scaletta la fisso con l’acquolina in bocca. Non prendere l’acme Eugenio, Diluvio, Angie e una Razzi arpia inferno e fiamme che suona diversa: Roberta molla il basso e passa alla tastiera. È riarrangiata, questa volta, è più elettronica, più effettata. E mi piace più dell’originale. Stiamo stesi su un cellophane, per molto più che quaranta secondi di niente. Ci tirano su con Inno del perdersi, ci riportano sulla (retta?) via di Endkadenz Vol. 1.

Poi la pioggia col sole, il secondo giro gratis sulle montagne russe, il bis delle lasagne al ragù della nonna: Viba. L’avevano già suonata in alcune altre date del tour, ma non ero riuscita a beccarla. Viba è un pezzetto di adolescenza, di licealità, di anni Novanta. È voce graffiata, piena di cose da dire. È voglia di farsi sentire. E anche noi ci facciamo sentire: urliamo, saltiamo, la cantiamo tutta. Io sto beeene! Come il buio lo sai non ti sbaaagli maaai! Adesso sì che siamo zuppi di sudore e adrenalina. Lì sul palco si asciugano con delle asciugamani blu, come le luci sopra di loro.

«Così non va»: Alberto e i soliti problemi coi volumi, ché ormai sono diventati una costante. Come Ho una fissa per cominciare i live, il sudore con relativo denudamento dei fratelli Ferrari, e il microfono che a volte ti chiedi se sia buono da mangiare, ché Alberto ha quest’abitudine. Ci riprendiamo, ci sono Puzzle, Rossella Roll Over e Rilievo, che sul finale diventa psichedelia pura. Un po’ com’era Eyeliner nei primissimi tour. Un outro lunghissimo, le dita sulle stesse corde, di nuovo e di nuovo. La Sammarelli ci viene incontro, si siede sul palco, proprio di fronte a me. Oh ragazzi, come si sta bene in prima fila! Allunghiamo le mani, lei sorride. Il tipo accanto a me riesce a pigiare le corde del suo basso, prende i tasti giusti, lei ci passa il plettro sopra, con la mano destra, vicino ai pickup. E resta così, quasi immobile, a testa bassa, poi lascia giù il basso ed esce quasi in punta di piedi, molleggiando. Gli altri fanno lo stesso.

Ci siamo quasi: il concerto sta per finire. Si fanno attendere per qualche minuto. Sappiamo già che usciranno, ma solo chi ha dato un’occhiata alla scaletta sa già con cosa: Nel mio letto. È la ballata più riuscita, la più matura insieme a Piuma, tra quelle dei primissi anni di carriera dei Verb… Verdena, volevo scrivere Verdena. È la ninna nanna che metti nel lettore emmepitrè a sedici anni, l’ascolti per un po’, poi la molli, ma pigi il tasto play a distanza di anni ed è come se l’ascoltassi per la prima volta. Siamo stanchi, noi e i Verdena. È buio ormai. Ci suonano Luna, Don Calisto e Funeralus. Ci salutano, escono di scena. È stato farfalle nello stomaco anche questa volta. Poi c’è il djset rock, ma io vado via. Ché ho ancora un sacco di roba da scrivere.

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