Dalla “morte” degli Isis (la band, che non si sa mai) l’unica band a poter assurgere ad una grandezza e ad un corpus emotivo mostruoso simile a quello di Turner e soci, a mio modestissimo parere, sono i Minsk.
I sei dell’Illinois arrivano al quarto traguardo e lo fanno prendendoci a calci nell’anima. “The Crash And The Draw” non è solo un disco, è anche un gigasferico monolite che s’incaglia tra bocca e ano, impalandoci alla sensazione che tutto stia collassando in un punto lontanissimo nell’universo. O verso il centro della Terra, forse è più appropriato. O al centro della Terra c’è un wormhole e una volta lì una forza superna ti prende per le narici e ti sbatte là dove gli umani non osano andarsene a zonzo ascoltando musica stronza.
Qui il discorso è serio perché il disco è lungo, difficile, suddiviso in una marea di parti e sfiancante. Questo per me è un bene, altrimenti mi sarei messo a recensire l’ennesimo disco indie italiano sfregandomi i coglioni al muro. Le premesse ci sono tutte. Si parte consapevoli del fatto che le mani poggiate ai fader del mixer che si cela, come un essere superiore e sfuggente, dietro a “The Crash And The Draw” sono di un signore di nome Sanford Parker, nome che ai più sprovveduti non dirà niente ma che ai bravi e attenti nerd della situazione farà risuonare nella testa ferali i nomi di Twilight, Nachtmystium e Corrections House. Si continua con un’ulteriore consapevolezza, ovverosia che i testi prendono ispirazione un po’ dalla mitica figura di Ermete Trismegisto, un po’ dal filosofo libanese Kahlil Gibran. Dunque il punto chiave di ciò che ascolteremo guarda lontano, nelle profondità di mondi superuranici e in fondo alle menti. Non ci si può aspettare altro da gente di questo calibro.
Il disco si costruisce su enormi bordoni di rumore e pasta chitarrobassistica estremizzate e ammantate di disagio cosmico e la tensione è gioco forza del disco, le quattro parti di “Onward Procession” sono una dimostrazione più che chiara, la prima, “These Longest Of Days” è ibrido tensivo di synth di puro fastidio e architetture chitarristiche ascensionali, “The Soil Calls”, la seconda, è imbruttimento spirituale ed opera magna di sludge brutalizzante ed assordante. La situazione cambia nel terzo movimento, “The Blue Hour” avvolto da cori lontani e chitarre distrutte e quasi silenziose nella loro marcescente presenza per tornare ad esplodere nella quarta parte “Return, The Heir”, psicotico crescendo post-post rock-post core-post sanità.
La peculiarità di questo viaggio interminabile ed allucinante è il tempo mutante, prima rallentato, poi estremizzato, poi claudicante poi esasperante, i tredici minuti di “To The Initiate” sono fulgido esempio di questo modus operandi, come anche il cantato delirante, folle e sciamanico di Tim Mead. Anche quando i Minsk adottano silenzi e soffi di melodia sanno perfettamente come strappare un pezzo di anima attraverso le orecchie (la splendida “Conjunction” fa male e si collega alla luce IsisTooliana di “The Way Is Through” e porta a fondo). Come una forma geometrica senza fine il disco ci dona ogni genere di sfaccettatura allucinante e in “To You There Is No End” sembra di sentire Les Tambour Du Bronx a braccetto con una folies elettrospastica Ambarchiana fino a perdersi in un turbine disastroso che compie evoluzioni su stesso senza mai ripetersi.
E avanti così, potrei parlarvi per altre sedici pagine di “The Crash And The Draw”, ma lasciate che siano gli effluvi del disastro superiore a continuare per me.