Se ascoltiamo Buona sopravvivenza senza saperne nulla, possiamo pensare che si tratti di un disco, ingiustamente sconosciuto, che è uscito una ventina d’anni fa. Siamo nel pieno degli anni novanta, quando si fanno i conti con il cosiddetto grunge che si è spento, con le evoluzioni del noise e dell’hardcore, con l’affermarsi del post-rock
Gli ZiDima sono tutto questo, lo sono da oltre quindici anni, ma è solamente oggi che forse hanno trovato la definitiva quadratura del cerchio.
Un oceano di fiati distrutti apre l’album e segna quella che è l’aspetto più riuscito di questo lavoro: testi ricercati e importanti, figli di una rielaborata eredità ferrettiana, tempi dilatati ed esplosioni al momento giusto, con una perfetta alternanza forte-piano. Qualcosa dei primi Marlene, e molto dei Fluxus, soprattutto nel cantato.
I brani più riusciti sono quelli nei quali gli ZiDima riescono ad avere più spazio per mostrare la propria impronta – Un oceano di fiati distrutti, come detto, ma anche Trema carne mia debole e Sette sassi– con un’abile gestione della tensione, modulando dilatazioni e fragori, melodia e scariche elettriche, sussurri e urla.
Funziona anche il cantato/recitato un po’ à la Clementi di Come farvi lentamente a pezzi; funziona, a mo’ di stacco, la scelta una voce femminile in Saziati; ed è un giusto epilogo un brano totalmente strumentale come la titletrack (richiami ai Mogwai più inquieti).
A convincere un po’ meno sono i brani più compressi, più brevi e con meno spazio per far emergere la propria cifra. A volte viene in soccorso l’efficacia dei testi (Inerti, comodi e vermi), mentre L’autodistruzione suona un po’ debole, troppo connotata: scivola via senza lasciare il segno.
Buona sopravvivenza suona familiare, senza essere già sentito, ha il coraggio di porsi fuori dalle mode del momento (nel bene e nel male) e di farsi carico in chiave del tutto personale un passato vissuto, metabolizzato e reinterpretato.