Cantautorato e folk sono due termini abbastanza riduttivi per descrivere le atmosfere de Il Palazzo: spaziano tra tanti ritmi, anche molto più agitati di quello che ci si può aspettare. Difficilmente annoiano, chitarre/basso/violino/percussioni che si alternano ad una voce assolutamente protagonista e riescono ad ampliare di molto la gamma del suonato. Qualche caduta di stile nelle voci contraffatte, impostate, e in qualche inserimento di volgarità poco adatte al contesto generale.
Musiche trascinanti, dalla parziale oscurità di I Topi, condita dallo scacciapensieri siciliano, all'”allegria” de Il Politico allo scambio tango/rock de I Vecchi Fanno la Rivoluzione. Molti richiami ai grandi pilastri del cantautorato italiano, da Gaber (omaggio esplicito in La Pistola) alle citazioni stravolte di De Andrè, con suoni che riprendono un Guccini dei tempi andati e si accostano (ma mai assottigliano) sugli autori più contemporanei.
Si parla per tutto il disco di un palazzo, per l’appunto, tanto bello da lontano quanto marcio da vicino: una metafora del nostro paese talmente azzeccata che manifesta da subito carenza di originalità. I testi sono critici, prendono posizione in maniera più o meno netta su temi di bruciante attualità, portando però poche aggiunte alla visione comune: sembra che spesso si limitino a cantare di cose alle quali non è di certo difficile pensare. Imprenditori che si riciclano in politica (insieme alle galline), artisti dalle dubbie qualità, vecchi incapaci di capire che il presente è frutto del passato.
Sicuramente ci saranno, come sempre dovrebbero nella musica e nell’arte, più livelli di lettura. Il primo è però troppo scontato, l’ennesima lamentela dei mali comuni di una penisola che tutti conosciamo fin troppo bene; gli altri sono sotterrati da questa superficialità, resi quasi completamente inaccessibili all’ascoltatore che forse vorrebbe porsi domande nuove senza dover sempre passare da quelle per cui si è già dato una risposta. Peccato davvero, musicalmente sono ben sopra la media.