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Goatsnake – Black Age Blues

2015 - Southern Lord
doom / stoner

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Tracklist

01. Another River
02. Elevated Man
03. Coffe & Whiskey
04. Black Age Blues
05. House Of The Moon
06. Jimi’s Gone
07. Graves
08. Grandpa Jones
09. A Killing Blues

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Ricomincia tutto dove si era interrotto quindici anni fa. I Goatsnake (con la new entry Scott Renner dei Sonic Medusa al basso) in gran spolvero, Nick Raskulinecz (che nel mentre è diventato il produttore di riferimento di tutto il rock moderno, dai Foo Fighters ai Deftones) al banco mix e, infine, l’urgenza di far sentire ancora la propria ferale voce.

Quindici anni sono lunghi a sufficienza per far incamerare a quel black friar del drone tutto che è Greg Anderson quella voglia di riff tale per cui non può sbagliare un colpo. E non lo fa. Le porte della chiesa immortalata nella spettrale copertina di “Black Age Blues” si aprono in modo inaspettato con mr. Slint David Pajo a incarnare lo spirito del blues dell’era nera grazie alla sua chitarra acustica, a fargli da sfondo troviamo ritagli da “The River”, pezzo che chiudeva l’ultimo “Flower Of Disease”, giusto per tirare ancor di più il fil rouge che unisce i due dischi, performed by Petra Haden (proprio la figlia del signor Charlie Haden, uno dei più influenti contrabbassisti di tutto il jazz moderno) e Mathias Schneeberger, per esplodere nel blues marcescente di “Another River To Cross”. Gli elementi che contraddistinguono il serpente infernale ci sono tutti, dallo stoner bastardo di “Elevated Man”, che sembra lanciare un messaggio “di sfida” ai QOTSA, il sabbathianesimo più rock’n’rolla di “Coffee & Whiskey”, lungo la quale il signor Stahl non lesina neppure urletti a là Iggy Pop mentre Anderson se ne esce con un solo di fiammante southern rock, tanto per gradire, e ancora il blues nero fino al midollo della title track, un fiume di quasi sette minuti menati a suon di rimandi ad un delta blu elettrico, tra esplosioni da treno in corsa a cali di tensione da far saltar le coronarie, nonché il classico suono catacombale cui ci hanno da sempre abituato di “Grandpa Jones”.
C’è spazio anche per un tributo a messer Jimi Hendrix con la doom’n’rolleggiante “Jimi’s Gone”, impreziosita dallo splendido coro delle “Dem Preacher’s Daughters” (già presenti nella sopracitata “Grandpa Jones”) a ribadire ancor più a fondo il legame nero nascosto (ma neanche tanto) in questo album.

Insomma spero di non dover attendere altri quindici fottuti anni prima di poter sentire altri gioielli da parte di questi quattro bastardoni. Meno Sunn O))), più Goatsnake. Con tutto il bene che posso volere a quell’altra mortal creatura di Anderson.

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