Nel corso del loro primo lustro di carriera, i Cloud Rat sono andati costantemente in crescendo: il grindcore/crust punk degli esordi s’è fatto man mano più complesso, arricchendosi sempre di elementi nuovi fino a diventare molto di più del frutto del legame fra potenza, velocità e un cantato graffiato e violento. Certo, il sound non s’è ammorbidito: chi cercava i vecchi Cloud Rat troverà una band ancora fedele al proprio passato, ma già più matura, più creativa, capace di aggiungere quel qualcosa in più a un genere che non si presta facilmente a sperimentazioni di qualsiasi tipo.
Sono ben diciassette le tracce che compongono Qliphoth, ma la durata totale del disco si attesta intorno ai quaranta minuti: sebbene alla fine si abbia la sensazione di non aver ascoltato così tanti pezzi, a causa della continuità che esiste fra alcuni di essi, la scelta di proporre una tracklist molto lunga con brani che raramente superano i tre minuti ha pagato. Qliphoth si apre con “Seken”: un tuono, poi due minuti dei Cloud Rat più classici, due minuti in cui viene fuori tutta la forza distruttiva della band. Ma da “Seken” in poi, per quanto la batteria viaggi su ritmi disumani e la prestazione di Madison Marshall sia superba, emerge la chitarra di Rorik, che tesse trame diverse, aggiunge passaggi più ricercati e brevi sprazzi melodici che sono la ciliegina sulla torta di Qliphoth. Basti pensare a “Racoon” o “Udder Dust”, due intro da ballata per due pezzi fra i migliori del lotto o a “The Killing Horizon” e “Thin Vein”, brani degni della tradizione cinematografica dell’orrore.
Accanto a una sezione ritmica costantemente tesa alla ricerca della sintesi perfetta fra energia, intensità e rapidità d’esecuzione, è la chitarra a dare quel qualcosa in più, a mettere in musica la rabbia e a dipingere un quadro a tinte fosche, con volti urlanti e disperati, macchiato di sangue. Ma, soprattutto, dalla forza espressiva immensa, mai a livelli così alti nella carriera della band.