Dalla loro prima collaborazione mi sono sempre chiesto: cosa cazzo hanno in comune Wayne Coyne (e i suoi Flaming Lips) e Miley Cyrus? La risposta arriva ora ed è ben chiara: la propensione all’eccesso. Entrambe le entità in questione adorano sollazzarsi nel baraccone dell’apparire. Loro, famigerati eroi dell’indie psichedelico tutto, con i loro live assurdi, pieni di addobbi, lustrini vari, pagliacciate divertenti e colorate a fare a pugni col rumore sprigionato dalla loro idea di musica allucinogena, lei con i suoi concerti farciti di pornografia spiccia, peni giganti cavalcati senza paura, tutto il peggio possibile ed immaginabile davanti agli occhi di suo padre che, fino a meno di dieci anni fa, cazziava impietosamente l’alter ego Disney di Miley, ossia Hannah Montana, anche se solo si osava a saltare un giorno di scuola. Che delizia.
Così, mentre Kesha perde il treno Flaming Lips (inizialmente il disco collaborativo doveva essere il loro) la Cyrus ci salta sopra a gambe aperte e così nasce questo Miley Cyrus & Her Dead Petz, un mastodonte di 23 brani che lascia spiazzati. Quando a scrivere i pezzi la band dell’Oklahoma e dalla piccola porn-popstar in tandem finiscono per essere delle gran cazzo di canzoni. Non epocali, ma belle. Ad ascoltare l’opener (e singolo con video meta pornografico in adorazione della marijuana come lancio del disco) “Dooo It!” uno non ci crederebbe, perché il pezzo fa schifo (ed è il giusto collante con il precedente plagio, mal riuscito, di Madonna degli anni ’80), ma poi parte “Karen Don’t Be Sad” e l’effetto è “fermi tutti, che cazzo sto ascoltando?”, il brano è delicato, i Lips accompagnano con un pop psichedelico e arioso, intriso di synthetismi e melodie pazzesche, la voce sgraziata quanto basta per sposarsi perfettamente con il Coyne-pensiero. E avanti così con afflati space-folk (STO RECENSENDO MILEY CYRUS E STO USANDO QUESTI TERMINI, CAZZO!) micidiali (“The Floyd Song” in cui Wayne tenta di tramutare Hannah Montana in Zola Jesus, “Something About Space Dude”), allucinazioni electro-spastiche (spiazzante l’odore di Kraftwerk meets St.Vincent di “Milky Milky Milk”) e sberle di psichedelia morbida e pop (“Tiger Dreams” vede addirittura la presenza di Ariel Pink, peso massimo del pop moderno mentre “Evil Is But A Shadow” è elettrogenesi tra eighties e nineties). Ma, tranquilli, c’è anche un sacco di merda che si palesa nel momento in cui la Cyrus torna a scrivere da sola (ovviamente per evitare l’inevitabile flop commerciale per la sola presenza dei brani di cui sopra) a dimostrazione che senza la guida di gente notevole questa giovane signorina Ciccone dei poveri (ancor più poveri della genietta dei clown Lady Gaga) non sa fare una beneamata mazza. E comunque liricamente rimane puro e semplice troiaggio di massa e/o sterile ammirazione verso le droghe leggere (per dire, la trasgressione eh).
Ma resta il fatto che quella manciata di brani scritti con questi signori pazzi rimangono in testa, funzionano, e sono un piccolo esempio di come lo schifo, ricoperto dalla polvere magica di un gruppo di scoppiati, possa diventare qualcosa di godibile. Addirittura bello.
https://www.youtube.com/watch?v=KRlZTrdzkbA