Un gruppo complicato gli Intercity, al loro terzo album dopo una pausa, che ha cambiato forma e componenti in maniera radicale. Rimangono i due Campetti (Fabio e Michele) dalla vecchia formazione e si aggiungono batteria, basso, violino. Un’evoluzione non solo fisica che ha mutato senza stravolgere anche le loro abitudini musicali sull’onda dei nuovi arrivati.
Rimane la voce, tanto caratteristica che è impossibile non rendere conto dell’impatto fondamentale che garantisce, e con lei i testi trasognanti, pop senza essere per forza orecchiabili. Si spostano definitivamente a Brescia (com’è chiaro dal testo di Teatro Sociale) e allargano i loro orizzonti, aiutati dalla spinta del nuovo arrivato violino e dal basso (che viene dritto da un altro gruppo bresciano, i Seddy Mellory, con un’esplosione di energia che avrebbe trovato ben poco spazio negli album precedenti).
Arricchiscono tutto con varie collaborazioni, dalla voce femminile degli Ovlov a Sara Mazo, prendendo spunto dalla commistione artistica di cui riescono a circondarsi. Cambiano i toni, alternando incursioni più rock al pop che tanto bene conoscono, con distorsioni e delay che non mancano mai, ritornelli enfatizzati dai cori e il violino con la sua presenza costante, poco usuale ma tanto gradita.
Un buon disco, per chi ha già avuto occasione di familiarizzare con il gruppo e per chi li deve ancora scoprire, nella musica e nei testi: all’inizio potrà sembrare quasi come se i contorni non fossero ben definiti ma col passare degli ascolti quella nebbia si diraderà, lasciando spazio ad un lavoro curato.