Mimosa Campironi è al suo disco di debutto, dopo una carriera sempre contornata dalla musica e percorsa tra cinema, televisione, teatro, e già sta facendo parlare di sé molto più di quanto ci si aspetterebbe (e meno di quanto si meriterebbe, comunque).
Canta di storie personali (Fame d’Aria) o di verosimili e dolorosi fatti di cronaca (Non Ero Io), utilizza la propria voce per parlare d’altre (Fakhita) o per descrivere stati umani anche solo probabili (Voglio Avvelenarmi un po’) ma che non per questo colpiscono meno. Riesce senza apparente difficoltà a immedesimarsi in figure di donna diverse, saltando da un pezzo all’altro, con o senza denominatori comuni, rendendo a chi ascolta punti di vista spesso difficili da immaginare altrimenti.
Il tutto accelera e rallenta quando serve, si passa dai ritmi elevati alla poesia decantata, con una voce che riesce ad esprimere splendidamente tutto ciò che vuole comunicare e si fa aggressiva, comprensiva, dolce, nostalgica, senza mai perdere la musicalità, senza mai passare in secondo piano, senza riuscire a stancare. Strumentalmente si fa accompagnare da ciò che più le serve e si addice al momento, partendo con un inusuale sottofondo di theremin per passare da molti degli strumenti più diffusi, senza stilizzarsi o formalizzarsi troppo.
Il livello dell’intero disco è molto alto, per capacità musicale e comunicativa, per scelta dei temi, perché coinvolge dall’inizio alla fine e non stanca mai, nemmeno quando si posa su temi più impegnativi. Una cantautrice con tante influenza pop, tutte quelle che servono per arrivare alle orecchie di tutti.