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Puscifer – Money Shot

2015 - Puscifer Entertainment
rock / experimental

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I Puscifer non mi sono mai piaciuti granché. Anzi, direi proprio che non mi son mai piaciuti affatto. All’epoca comprai il loro primo “>V” Is For Vagina” stracarico d’aspettative e ne rimasi fortemente deluso, un disco con ottimi spunti e che mostrava un lato diverso di Maynard James Keenan, inusitato, minimale, estraneo alle complessità delle sue creature maggiori, ma comunque non abbastanza “alto” per ciò che ci si aspettava da una simile testa (e ugola). Stessa cosa per la miriade di EP licenziati da questa creatura, un piccolo passo avanti fatto con il secondo album “Conditions On My Parole” ma nulla di eclatante, sempre a mezz’aria, sempre “imperfetto”. C’è sempre tempo per farmi cambiare idea, ed è qui che entra in gioco il nuovo “Money $hot“.

Il perché è presto detto: questo disco è pazzesco. MJK ci ha messo nove anni ma alla fine l’ha fatto, dando una forma completa al nome Puscifer, tornando grande, quasi immenso. Non esagero, e per capire che sto dicendo la verità ci sono ben dieci brani a testimonianza. Ad accompagnare il Nostro la solita pletora di mostri, da Tim Alexander dei Primus a John Eustis dei Telefon Tel Aviv (e Nine Inch Nails, non dimentichiamoceli), da Jon Theodore, già dietro le pelli dei The Mars Volta, a Matt McJunkins, compagno del Mainardo nell’ultima incarnazione degli A Perfect Circle fino ad arrivare alla fantastica ugola di Carina Round. Ed è proprio la presenza della cantante inglese, una volta per tutte, a donare uno spessore di altissimo livello alle composizioni, accompagnando la voce dei Tool in un viaggio assurdo fatto di intrecci vocali di assoluto pregio. Illusorio il singolo “Money Shot”, un assalto punk all’arma bianca, forte di un groove che trae dal miglior rock muscolare degli anni ’90 la sua linfa vitale, sugli scudi un Maynard che ringhia e sbava, perché il disco si apre sulle escursioni electro eteree di “Galileo”, dall’incedere gloomy e dalla coralità epica, misura eterea che trova terreno fertile nella splendida spazialità di “Grand Canyon”, e ancora nel synth-pop plastificato di “The Arsonist” e di “Simultaneous” (e qui tutto l’amore di Keenan per i Devo esce allo scoperto). Il disco non langue e prende una piega diversa con “The Remedy”, chiodo di furioso power-pop piantato in un crescendo di odio represso (significativo il refrain “You speak like someone who has never been smacked in the fuckin’ mouth/That’s ok we have the remedy/You speak like someone who has never been knocked the fuckin’ out/ but we have your remedy” a fare letteralmente a botte con l’incedere soft del brano), ma è nello splendore puramente pop della conclusiva “Autumn” che si trova la vera perla di tutto l’album, un pezzo che crepa il cuore, infettato com’è da synth ottantiani, da un lirismo di un altro pianeta, a dar man forte intersezioni di chitarra indie lancinanti che manco i Karate dei bei tempi e un basso (in alcuni punti decisamente elefantino) a pestare il tutto a dovere. C’è spazio anche per un bel tributo ai Monty Python con la caustica “The Life Of Brian (Apparently You Haven’t Seen It)”, per non farci mancar nulla.

L’assenza dei Tool si fa molto molto meno pesante. Ed è un respiro che serviva. Almeno a me.

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