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Interviste

Intervista a MARCO PARENTE

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Marco Parente nel corso degli anni ci ha abituato ai percorsi obliqui, alle scelte imprevedibili, ad un modo di intendere la musica estremamente personale sin dalle modalità con cui porgere le proprie canzoni a chi lo segue.
Ma il nuovo progetto “Disco Pubblico”  sposta l’asticella un po’ più in là. Anzi: sarebbe forse meglio dire un po’ più a lato. Compiendo per la prima volta un passo verso una visione della sua musica che aggiri l’oggetto-disco dopo le tante sperimentazioni su quest’ultimo e sulle sue possibilità.
“Disco Pubblico” è un nuovo lavoro di dieci canzoni mai incise e mai stampate, che diventerà reale solo grazie all’incontro con le persone in una serie di pubblic-azioni dove saranno gli ascoltatori stessi a pubblicare le canzoni.
Come? Sigillandole nella propria mente e nel proprio cuore (heart-disc) o registrandole audiovisivamente tramite smartphone, tablet e altri strumenti tecnologici per poi condividerle con l’hashtag #discopubblico e riversarle nel sito www.discopubblico.it che farà da piattaforma e da punto di raccolta di tutte le diverse e personali pubblic-azioni avvenute durante il tragitto di “Disco Pubblico”.

Qui trovate le pubblic-azioni finora uscite: http://www.discopubblico.it/pubblic-azioni

Per approfondire la questione, ne abbiamo parlato direttamente con lui.

Qui trovate invece, in esclusiva, i testi dei 10 brani che compongono “Disco Pubblico”.

Disco pubblico. Riassumendo: non è stato registrato nessun album per poi essere diffuso in cd, vinile, o formato digitale. Semplicemente, ogni volta che tu e la tua band eseguite dal vivo le dieci nuove canzoni, è da considerarsi una pubblic-azione. Anche grazie alle registrazioni (digitali, o solamente mentali) di tutti i partecipanti al concerto, che diventano parte attiva e fondamentale. Da cosa nasce questo progetto?
Nasce da una domanda semplice e complessa allo stesso tempo. Dopo diversi dischi realizzati e dopo aver preso atto sempre più del notevole cambiamento nel modo di fruire della musica…come continuare a dare un senso al proprio prodotto creativo? Dico come e non se, perché non voglio nemmeno prendere in considerazione il fatto che ciò che si produce e che ci rappresenta così profondamente possa non avere più senso, per me sarebbe come rinunciare a se stessi. Una resa inaccettabile per quel che mi riguarda- nel caso o tutti o nessuno. Tutto questo arrovellarsi però paradossalmente ad un certo punto si è disteso e trasformato nella possibilità e prospettiva di provare a rimettere al centro del discorso la musica e tramite la sua condivisione il piacere della concentrazione come riappropriazione del gusto, un arto dimenticato.

Oltre al progetto estetico e artistico del disco pubblico, c’è dietro, anche solo in piccola parte, una qualche esigenza pratica? In altre parole, c’entra un po’ anche il periodo storico, la difficoltà di registrare un disco, il proliferare di alternative come ad esempio il crowdfunding?
Se c’è una cosa che oggi quasi tutti sono in grado di fare è proprio registrarsi un disco, semmai la difficoltà sta nel pubblicarlo e poi sperare di venderlo.
Il concetto dello studio di registrazione come luogo mitico dove realizzare i propri sogni è pressoché svanito e questo non è necessariamente un male, anzi magari finirà per smuovere un po’ le acque…e altro che se ce n’è bisogno. Per quanto riguarda invece il crowdfunding, all’inizio si presentava come un’ interessante alternativa, tutto questo coinvolgimento diretto del pubblico senza intermediari. Però per quella che è stata la mia esperienza, questa condivisione ha finito solo per rendermi schiavo dei social, giocando al rialzo con la morbosità e mettendo la musica in secondo, terzo quarto piano. Tra l’altro offrendo un servizio tutt’altro che disinteressato, non so se mi spiego. Per tornare alla tua domanda, no! non credo che disco pubblico sia spinto da una qualsiasi esigenza pratica, anche perché, ahimè, non vedo proprio quale potrebbe essere. Io resto fedele a Don Chisciotte e al suo cavallo.

Il tuo album La riproduzione dei fiori (2011) conteneva molti elementi che avevano già avuto vita nello spettacolo de Il Diavolaccio, che avevi portato in giro qualche tempo prima. Disco pubblico trae per certi versi spunto dall’esperienza live del Diavolaccio, ne è una sorta di continuazione estremizzata, oppure si tratta di due progetti completamente diversi?
Mi fa piacere che citi ‘Il Diavolaccio’, in pochi l’hanno visto e molti non sanno nemmeno che è stato realizzato. E comunque sì, Il Diavolaccio è sicuramente l’antesignano di disco pubblico, con la sola sostanziale differenza, uno nasce e vive nell’ambiente del teatro, mondo per sua natura abituato all’irriproducibilità dell’atto, l’altro invece va ad intromettersi esattamente nell’ambiente opposto, nell’ultimo anello della catena di montaggio dell’industria discografica, l’ultimo avamposto: la sala trucco. E in questo ‘Disco Pubblico’ qualche cortocircuito lo crea.

Nel video di presentazione dici che a causa del progresso delle tecnologie, la musica riprodotta ha subito tante trasformazioni, fino ad arrivare alla perdita del suo supporto materiale. Questo fenomeno potrebbe rivelarsi un’opportunità, in quanto con l’esperimento del disco pubblico “ogni singolo punto di vista rappresenta una copia, simile eppure unica al tempo stesso”. L’intento è quello di recuperare l’intimità e senso di partecipazione, l’istantaneità della fruizione musicale. Ascoltare le parole del tuo video mi ha fatto pensare a un grande classico della filosofia del Novecento, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica di Walter Benjamin: il tema dell’esatta riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, la sua perfezione, la riduzione a oggetto di consumo e la conseguente perdita degli aspetti di unicità, irripetibilità e autenticità. È una lettura che ti ha influenzato in maniera diretta, oppure è solo un caso?
Lo sto leggendo adesso, ed è incoraggiante scoprire a posteriori che molti prima di te e in modo molto più approfondito, hanno affrontato la questione ‘riproducibilità dell’opera d’arte’ e creatività che diventa prodotto, analizzandone aspetti sia negativi che positivi. Ma un altro libro invece mi ha molto suggestionato nelle riflessioni che poi mi hanno portato a formulare ‘Disco Pubblico’, ‘Come funziona la musica’ di David Byrne.
E’ stato un po’ la chiave di svolta che ha trasformato un’idea di opera vivente autoreferenziale in opera vivente condivisa… per me un bel punto di svolta, un buon compromesso tra quantità e qualità, tra progresso e tradizione, concentrazione e utile divertimento.

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Un amico ha registrato la vostra esibizione di Milano, la presentazione ufficiale del disco, poi me l’ha passata per e-mail. In rete, qualcuno ha già accolto il tuo invito a pubblicare i video con l’hashtag #discopubblico. A prima vista, potrebbe sembrare paradossale che il progetto Disco pubblico parta dalla questione del progresso delle tecnologie, della perdita dell’oggetto-disco e poi chieda di essere ripreso e condiviso dalle protesi tecnologiche. Si può dire che l’idea di fondo sia proprio quella di portare al limite massimo le potenzialità della riproduzione esatta, nonché la nostra ossessione per filmare, immortalare, condividere alla velocità della luce? È come se si creasse una tensione interna al meccanismo di riprendere-postare-condividere, fino alla sua contraddizione e al conseguente recupero dell’unicità di un’esperienza vissuta qui e ora?
Ammettere l’uso, comunque inevitabile, delle ‘protesi digitali’ è solo il tentativo di dare a quel ‘punto di vista’ un valore personale prezioso, qualcosa da preservare, come dare responsabilità ad un gesto diventato ormai abitudine passiva, un riflesso condizionato dalle nuove tecnologie, che come recita Pif nella pubblicità della Tim, ti danno ‘la libertà di non dover scegliere’ – Nemmeno i nazisti erano arrivati a tanto. Tra parentesi, a me le registrazioni del telefonino piacciono proprio, riescono a fotografare la parte emotiva e più comunicativa dell’esecuzione in modo diretto. Ad ogni modo la storia delle protesi digitali, l’ho già detto più volte, non è il centro del discorso di disco pubblico, quello rimane sempre l’opera e il momento in cui accade, ciò che si imprime nei telefonini non è altro che una traccia della scia rilasciata dal disco che cammina.

Hai detto che Disco pubblico è un invito a partecipare a un esperimento. Ti aspetti, tra le altre cose, che questo tuo “disco vivente” venga accolto come una qualunque altra pubblicazione? Ti aspetti che possa essere trattato come un qualsiasi altro disco, che riceva recensioni – online e su carta -, voti, che possa essere preso in considerazione per qualche classifica? Uno dei modi di partecipare, da parte della critica e degli addetti ai lavori, potrebbe essere quello di trattarlo come un disco “normale”, ignorando la questione della forma-supporto e basandosi solo sul contenuto?
Dobbiamo tener ben presente che queste 10 canzoni sono inedite, dunque alla fine sia lo spettatore che gli addetti ai lavori dovranno accettare (o ignorare) che ogni versione che apparirà nella rete o pubblic.azione a cui si è assistito finirà per essere la versione ufficiale (edita) della canzone. Mi ha stupito molto vedere che dopo una sola esibizione integrale di disco pubblico (a Milano a Radio Popolare) sia gli spettatori che la radio stessa stanno considerando quelle registrazioni la loro copia del disco. E con ancora più stupore ho saputo che alcune radio hanno addirittura in programmazione quelle pubblic-azioni. Poi se e quando leggerò la prima recensione…beh, buona o cattiva che sia, sarà bella. Comunque una volta assodato il concetto di ‘Disco Pubblico’, credo ci si possa concentrare e approfondire solo l’aspetto prettamente musicale… e allora considerarlo semplicemente come un ‘disco normale’.

La gestazione delle dieci nuove canzoni: cosa cambia nella scrittura di un pezzo che nasce per essere vivo, per avere molte versioni estemporanee, piuttosto che una versione unica e definitiva?
No no, ho lavorato per più di un anno a queste canzoni come se mi preparassi a registrarle in ogni momento in un disco, producendo sì delle partiture viventi, comunque precise fino all’ultima nota. Ciò che le renderà invece diverse ogni volta sarà l’unicità del punto di vista, l’energia e l’esperienza che scorre sul filo invisibile che lega me e i musicisti allo spettatore, al luogo che ci ospita. Per questo insisto molto sul valore di ogni Pubblic-azione come momento esatto della riproduzione del disco. Le canzoni sono sempre le stesse, il punto di vista mai uguale, in mezzo c’è il disco.

Venendo ai singoli episodi del disco, vorrei soffermarmi su un paio di pezzi che mi hanno colpito molto, senza nulla togliere agli altri otto. Credo che Uomini incagliati sia uno dei brani più belli di tutta la tua carriera. Ho avvertito una scrittura veramente importante. Mentre con Combaciare ho notato con piacere che sei tornato a duettare con una voce femminile, Serena Altavilla, dopo le ormai storiche collaborazioni con Carmen Consoli e Cristina Donà. Come nasce questa immagine degli uomini incagliati? Per quanto riguarda Combaciare, invece,è stato il brano, una volta ultimato, a richiedere l’aggiunta di una voce femminile, oppure avevi già in testa l’idea del duetto hai scritto una canzone che fosse adatta?
C’è una poesia di Eliot, ‘ Gli Uomini Vuoti’ che fin dalla prima volta che l’ho sentita (da Marlon Brando in Apocalypse Now) ha aperto molte porte e finestre. E’ stata per molto tempo, e forse lo è ancora, il mio ideale di poesia scritta. Per fortuna ‘Uomini incagliati’ è una canzone, dunque si tira fuori da ogni imbarazzo e eventuale confronto. E poi comunque nella sostanza sono diametralmente opposte: alla fine l’Uomo di Eliot muore, il mio invece è inesorabilmente attanagliato alla vita: inciampa, sbaglia…ma non la molla mai la vita.
‘Combaciare’ non nasce subito come duetto, ma come spesso accade sono le canzoni stesse a suggerirti la loro vera natura., la forma a loro più congeniale. Il nostro compito è solo quello di ascoltare e ben interpretare tali suggerimenti, proprio come fossimo un tramite, dei Medium della canzone. E tutto di questa canzone ammiccava alla dualità, la struttura così simmetrica e speculare del testo , il titolo stesso, insomma tutto, proprio tutto. La cosa curiosa però rispetto ai duetti che citavi, è che ‘Combaciare’, grazie alla natura mobile di ‘disco pubblico’, finisce per esemplificare e diventare una sorta di prototipo del duetto maschile/femminile, in cui ogni volta e ad ogni pubblic-azione cambiano le interpreti, ma mai i ruoli . La prima è stata Serena Altavilla, a Napoli c’è stata Mimì Russo, presto ci saranno Irene Grandi e Cristina Donà, che hanno aderito con piacere all’idea, (ora si tratta solo di trovare l’occasione giusta) e poi molte altre che spero di scoprire e conoscere disco facendo. Siamo appena all’inizio.

Prima di salutarti e ringraziarti, un’ultima domanda, secca: a oggi, sono più le probabilità che questo disco possa avere un futuro anche in sala di registrazione, oppure no?
Sì, ma quando avverrà sarà solo una delle tante versioni :)

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