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Interviste

Intervista ai MINISTRI

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Siamo andati al Flog di Firenze, in occasione del loro concerto del 16 aprile, per scambiare quattro chiacchiere con i Ministri a poco più di 6 mesi dall’uscita dell’ultimo album “Cultura Generale”.

A cura di Serena Lucaccioni Alessio Gallorini.

Gordon Raphael non ammetteva l’italiano in studio. È stato difficile lavorare su questo? Come mai era così rigido?
Semplicemente  prova a pensare se ti sei mai trovata in una tavolata dove ci sono tre persone che parlano una lingua e uno da solo che ne parla un’altra, è buona regola sforzarsi di integrare quella persona nella conversazione. Quindi è stato buffo perché io parlavo abbastanza bene in inglese, Divi lo conosce e lo parla abbastanza, Michi un po’ meno, quindi si facevano delle acrobazie per riuscire a dirsi le cose anche tra di noi con lui presente. Poi non era in realtà una persona così rigida, però era proprio da stronzi parlare in italiano. Perché ti viene anche naturale fare tutta una serie di commenti quando stai lavorando ad un disco, alcune esclamazioni, ed è brutto per il produttore essere escluso, rischi anche di sentirti parlare dietro in qualche modo…

Va beh, ma è da avere le manie di persecuzione…
No fidati io faccio anche il produttore e se capitassi in una situazione del genere sarebbe molto fastidioso. Poi ovviamente Gordon è comunque abbastanza un artista a sua volta, quindi devi avere anche la giusta sensibilità per averci a che fare, ma questo non riguarda solo l’inglese, riguarda mille altre cose. Non ultimo il veganesimo, che era più difficile da rispettare della lingua stessa… Sono diventato ferrato su che cosa sia la quinoa.

In “Vivere da signori” criticate uno stile di vita da ricchi, ma poi parlate dei soldi come qualcosa che toglie anche le preoccupazioni. Lavorando nella musica, soffrite di questo? Si può dire che ancora chi fa il musicista in Italia fa fatica a pagare l’affitto?
Il pezzo non è necessariamente una critica. Poi capisco che parte dei miei testi abbiano una leggibilità complessa, infatti non chiedo necessariamente che siano letti come dei saggi di semiotica, ma anche un po’ liberamente. Penso  che in qualche modo Vivere da signori parli più del fatto dell’avere un sacco di soldi e non sapere come spenderli. Voglio dire, se io Michi e Divi improvvisamente avessimo un sacco di soldi -cosa che non abbiamo- cosa ce ne faremmo? Riusciremmo effettivamente a farcene qualcosa?
Mi viene in mente la scena del film Tommy, quello basato sul disco degli Who, dove ad un certo punto la famiglia working class inglese una volta diventata ricca perché Tommy diventa un mago del flipper e diventa un attrazione, arriva ad avere un sacco di soldi e scelgono di investirli comprando tantissimi fagioli, gli stessi fagioli che mangiavano prima. Semplicemente ne comprano tantissimi e ci fanno il bagno. Quindi in qualche modo il pezzo parla un po’ più di questo; insomma immagini come il giracravatte, le ciabatte col pelo, cimeli inutili di cui ti riempi quando hai molto denaro da usare.
Dire che è un po’ di più sul rapporto con la ricchezza, ma parte più che altro dall’espressione vivere da signori, che può essere anche come quando stai facendo le vacanze in Grecia con due lire mangiando i panini che rubi dall’albergo, e poi ad un certo punto ti prendi una merendina al cioccolato e dici “ah, questo è viver da signori”, voglio dire, è tutto relativo.
Per rispondere alla domanda iniziale, ci riusciamo a vivere, senza stravivere di sicuro. Siamo consci del fatto che se avessimo iniziato trent’anni fa ora ci saremmo comprati un appartamento coi dischi venduti, invece abbiamo iniziato dieci anni fa che è comunque un periodo migliore di ora per avere una band di questo genere, quindi ci è andata bene.

Parliamo di Cultura Generale. È un brano particolare a suo modo, scarno se così può definirsi, un po’ fuori dal classico dei Ministri. Che mi dici di questo?
Il pezzo è originariamente un arpeggio di chitarra e voce. Quando eravamo a Berlino, per l’attitudine giocosa di Gordon in quel momento, c’era più voglia di fare qualcosa in quel momento che inseguire una cosa già fatta, e quindi è venuta fuori questa versione stranissima, con Gordon che suona il piano; è stato più un momento. Perché in realtà è una partitura molto da De Andrè se vai a farla con chitarra e voce, ma volevamo che tutto il disco fosse più un’esperienza, fosse più quei giorni a Berlino. Non una strategia, non una costruzione più ampia.

Il fatto che canti in quel pezzo. È perché lo sentivi più tuo?
Divi non l’aveva mai cantato fino a quel momento, lo avevamo sempre ascoltato nel provino che avevo fatto io a casa. Quando glielo abbiamo fatto sentire, Gordon ha detto “ok, tu canti la prima strofa e tu la seconda ed insieme il ritornello” quindi abbiamo seguito le sue direttive ed era contento.

In questo disco, rispetto ad altri, avete fuso più organicamente le tematiche personali con quelle politiche. È stata un’esigenza naturale, segno di un passaggio?
L’espressione tematica politica o canzone politica è sempre un po’ difficile rispetto alla nostra musica.
In realtà, nel momento in cui io sto parlando della mia vita, la mia vita è all’interno di uno stato, all’interno di leggi, di una città, di problemi. Mi sarebbe impossibile parlare non politicamente, inteso in questo senso. Spesso anche quando si sta parlando di quello viene sempre preso come se io parlassi all’esterno, come se stessi criticando, invece ci sono dentro, tutti ci siamo dentro. Non mi tiro fuori dalla critica. In Tempi Bui era veramente vivo in tempi bui e sto diventando buio anch’io, in Idioti è ci trascinate giù con voi.
Sussiste sempre il pericolo di diventare quello che si critica, di dimenticarsi da dove partiva la tua forza, la tua energia nel criticare e pian piano diventare la stessa cosa che stavi criticando. E questo più che essere una colpa è un pericolo, è un pericolo di chiunque, ed è un pericolo normale. Quando sei giovane in fondo non hai nulla da perdere, ti senti tutto battagliero, poi incominci a dover pagarti un affitto, a voler mettere su una famiglia, a voler tutta una serie di cose e ti trovi a essere stanco. A essere stanco quando torni a casa la sera perché hai lavorato tutto il giorno in un posto che non ti piace e magari incominci, pian piano senza accorgertene, a diventare quella cosa che prima ti faceva così cagare.
Ma non è una cosa negativa, è una cosa normale.
Alla base della nostra musica c’è un’energia che mettiamo nel non dimenticare da dove eri partito. Il tenere viva questa energia e questa determinazione, è parte integrante di tutto il nostro lavoro. Però siamo umani, non parliamo di esserne sicuri, cerchiamo di raccontare la nostra lotta nei confronti del dimenticare, del non rendersi conto del cambiamento.
Adesso, senza stare a fare nomi, la musica italiana per così dire politicizzata, è sempre lì a dire “che schifo qui, che schifo lì” però poi la mia domanda è “ma qual è la tua condotta?”
Non abbiamo la presunzione di poter insegnare qualcosa, ogni tanto sentiamo il diritto di poterci incazzare su determinate questioni e ne parliamo. Però poi in questo album c’è tanto della nostra vita dentro e quando parliamo del fuori, parliamo di questo, di stare fuori dal giudizio.

Dunque puoi dire di sentirti un po’ meno Fuori, rispetto a un paio di dischi fa?
Penso che siano semplicemente cambiate le forme di allora nel fare certi pezzi. All’epoca, alcune cose erano un pochettino più semplici, magari anche efficaci, e c’era una volontà di essere più diretti. Non posso dire che sia cambiato tantissimo, perché non siamo cambiati tantissimo, la nostra vita non è cambiata tantissimo, in senso buono. Non c’è stato un grande salto. C’è un po’ più di consapevolezza.
Inoltre prima, anche con risultati buoni, stavamo un pochettino più attenti a quello che ci chiedevano le persone. Non lo facevano neanche direttamente, eravamo noi ad immaginarci un’aspettativa. Questo ha sempre prodotto risultati buoni. In questo disco ci siamo sentiti molto più liberi di dire certe cose, di scegliere certi tempi, certi spazi, certi arrangiamenti. Chiedendoci sempre che cosa voleva la gente, ma preoccupandoci meno del feedback.

Mi hai in parte anticipato perché quel che volevo dire era anche che in questo disco io ho sentito un po’ più una resa, un lasciarsi andare ad uno stile di vita più normale e meno guerriero.
Ma il fatto che noi tra un tour l’altro, ma anche tra una data e l’altra, siamo normali, è quello che ci permette di riuscire a comunicare. Se facessimo una vita diversa, da personaggi, non riuscirei neanche a esprimermi.
Per tante altre cose questo disco è stato molto più rischioso per noi, perché questo disco è stato molto più una sfida tra musicisti. Insomma fare un disco sapendo di non poter avere nessuna correzione dopo, è un rischio che pochissimi corrono oggigiorno. E questo non è necessariamente un vanto. Il rock in questi anni ha sempre funzionato in una maniera un po’ più photoshop, quindi con grande margine di correzione. Scegliere, o meglio ci è capitato proprio di non poterlo fare con Gordon, è stata una bella sfida e ci ha messo in pace con noi stessi. Perché poi ti riascolti e dici “noi siamo così”. Questo per il pubblico è difficile perché è abituato al disco molto pompato e live vuole il disco. Poi quando vengono al live e uno fa un lavoro pazzesco per portarlo sul palco in un certo modo, e il pubblico lo sente comunque pompato a 120decibel poi comunque non si capisce se è soddisfatto davvero. Fare questo disco in questo modo ci ha fatto rendere conto anche quanta ansia c’era nei dischi precedenti di funzionare.

La scelta di Gordon Raphael quindi è venuta da quello, vi ha lasciato più liberi e vi ha solo dato l’esperienza?
Gordon Raphael semplicemente non accetta che possa esistere la postproduzione, peraltro perché non avrebbe saputo neanche farla, ma non è questo il punto. Per lui non esiste. Per lui i dischi vanno registrati come nel ’72 e quindi non c’era la possibilità.
Questo non vuol dire nè che la postproduzione sia male, né che sia bene, però fare questa esperienza è utile.

Dato che hai provato entrambi, per il prossimo disco dovessi scegliere?
Noi facciamo sempre un grande lavoro di pre-produzione, per il prossimo disco forse potremmo essere pronti a portare questa pre-produzione più avanti, anche fino alla fine, ma è davvero presto per dirlo.
Di sicuro ci siamo accorti di mille cose sui suoni, su come arrivare davvero a suonare come le band americane e inglesi che ascoltiamo. Infatti quello che ti dicono spesso in Italia sul come arrivare a quei sound è falso. Perché in Italia ti arriva un disco dall’America o dall’Inghilterra e ti chiedi come hanno fatto a farlo così e le soluzioni che si propongono non sono quelle, sono sbagliate.
E alla fine quello che vale sempre è il partito delle mille prove. Devi arrivare in studio dopo aver provato quei pezzi fino alla morte. Noi abbiamo fatto così, perché comunque il fatto di eseguire quel pezzo una volta ed è così, non puoi ricrearlo in un altro modo, è tutto lì. Neanche se hai tutti gli strumenti del mondo, rimane una cosa umana grazie a Dio.

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La scelta di girare il video di Io sono fatto di neve all’Ex Moi. Cosa ha significato per voi quell’esperienza di quella giornata in quel posto?
La scelta è stata fatta insieme al regista Federico Merlo, un ragazzo giovane e bravissimo di Genova, che in parte ci ha lanciato l’idea. L’idea era raccontare una storia di migranti, noi abbiamo accolto la sfida. Il proposito era di raccontare una storia vera, di non fare fiction, e soprattutto di raccontare una storia luminosa, felice, per quanto felice potesse essere. In realtà abbiamo provato varie vie prima di arrivare all’esperienza dell’Ex Moi, alcune che ci sono state precluse anche da organi istituzionali. Volevamo girare in un centro d’accoglienza ma non ce l’abbiamo fatta per questioni di permessi, data l’atmosfera tesa sul tema, attualmente.
Dunque siamo arrivati all’Ex Moi, abbiamo spostato l’attenzione su questo, anche se il pezzo non parla esclusivamente di questo. Il pezzo parla della fragilità e sicuramente ha dentro un sacco di cose che parlano della mia fragilità direttamente, riferita al momento in cui l’ho scritto. Ma come faccio sempre con i testi, volevo che si allargasse a tutti in qualche modo. Con questa trovata siamo arrivati ad un limite ideale, perché in questo momento non si poteva parlare di fragilità e riprendere noi stessi, non con la situazione che c’è in giro, non era davvero possibile.

A livello umano cosa ti ha lasciato?
A livello umano è stato molto molto molto intenso. Siamo andati là tre volte. Una prima volta quando nevicava peraltro, ma abbiamo girato poche scene perché ancora non avevamo preso accordi né organizzato.
Poi siamo tornati lì a girare e a passare la giornata effettivamente insieme a questi ragazzi. È stato intenso perché ti accorgi davvero della paura che abbiamo noi dell’altro e della paura che anche loro hanno di noi in questo senso. Ti accorgi che il metodo di un’occupazione necessaria come in quel caso, è qualcosa che riesce ad unire le persone in maniera superiore a qualsiasi altro centro o legge. Sono persone di stati, culture, etnie, religioni diverse e vivono tranquillamente.

Questo è dovuto proprio al fatto che altrove si trovano tutte le porte chiuse in faccia, no? Creare una loro comunita di esclusi, triste da dire, ma li aiuta.
Sì in parte è per questo.
Semplicemente sono persone che sono state scaricate da tutta una serie di centri di accoglienza che hanno chiuso, si sono ritrovati senza un posto dove andare, e i media locali hanno contribuito nello screditare in ogni modo quel posto, per cui loro si sono fatti forza a vicenda.
Infatti entrare lì dentro con una telecamera rimane ancora complesso. Noi non volevamo riprendere di nascosto, lì volevamo riprendere davvero, volevamo riprendere il loro orgoglio e i loro sentimenti, quindi dovevamo necessariamente coinvolgerli. Questo è stato frutto di un lungo processo, le prime sette ore avremo girato dieci secondi in realtà. Poi, piano piano, siamo riusciti a entrare veramente in contatto e amicizia con le persone presenti nel video.
È stato molto bello, ma non è questo il punto, il punto è che ti sposta la questione dall’aspetto del telegiornale, della cronaca, all’aspetto molto più umano. Ed era quello che volevamo, perché tutta la comunicazione che si fa sull’argomento passa sempre con una grossa fatica di guardare al di fuori. È tutto un “siamo un fallimento”, “i centri di accoglienza sono una vergogna”, ed è sempre un parlare di noi, della nostra colpa e così via; è sempre un parlarsi addosso. E non riusciamo mai a guardare quelle persone e a parlarne davvero. E noi stessi questo lo abbiamo imparato durante il giorno, e loro altrettanto, ed è stato un incontro nel senso più completo del termine, e sarebbe bello che queste cose succedessero un po’ più spesso.

E la musica si conferma veicolo per queste cose, dove le istitutizioni sono le prime che ti mettono i bastoni fra le ruote. Voglio dire, lì ci vanno i Ministri e non ci va un ministro sul serio.
Questo di sicuro è stato una cosa che volevamo fortemente ed è anche il fatto di non essere giornalisti che ci ha dato la possibilità di essere ascoltati da loro. Anche qui ci sono state da superare delle diffidenze perché quelle ci sono di sicuro.
É stato anche fondamentale il tramite del Comitato Ex Moi Rifugiati ed Emigranti, composto da ragazzi che lavorano e aiutano quel posto. Soprattutto nella figura di alcune persone che danno due terzi della propria vita a posti del genere senza volere nemmeno un riconoscimento, un ritorno di nessun tipo. Quindi è stata forte anche quest’esperienza di capire il tipo di risorse che abbiamo in Italia, che a volte sono incredibili. Alcuni dei ragazzi che lavorano in questo comitato ne sanno più di immigrazone, burocrazia, documenti e così via, di chiunque altro.

La dimostrazione che la meritocrazia in Italia non funziona, persone che ne sanno così tanto poi non sono valorizzate nei posti che dovrebbero.
È molto complesso questo, non so se sia una questione di meritocrazia, esiste anche il fatto che banalmente ci sono i grandi schieramente destra e sinistra che ci portiamo dietro dalla seconda guerra mondiale, che sono ancora così bloccati e rendono impossibile una cooperazione di teste funzionanti su problemi del genere. Quindi chi finisce a voler fare queste cose qui, finisce in schieramenti molto forti di un certo tipo che creano problemi di dialogo, e questo è molto complesso, ma non sminuisce di una virgola il loro lavoro, rende solo più lento e faticoso il tutto.

Alcune foto del concerto:

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