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Cannibal Ox – Blade Of The Ronin

2015 - IGC Records
hip-hop

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Tracklist

01. Cipher Unknown (Intro)
02. Opposite of Desolate (feat. Double A.B.)
03. Psalm 82
04. The Power Cosmiq (feat. Kenyattah Black)
05. Blade: The Art of Ox (feat. Artifacts & U-God)
06. Pressure of Survival (Skit)
07. Carnivorous (feat. Elzhi & Bill Cosmiq)
08. Thunder In July (feat. Space, Swave Sevah & Elohem Star)
09. Water
10. The Horizon (Interlude)
11. Harlem Knights
12. Sabertooth (feat. Irealz & Bill Cosmiq)
13. Iron Rose (feat. MF Doom)
14. Solar System (Cosmos) (Skit)
15. The Fire Rises
16. Gotham (Ox City)
17 Unison (Skit)
18. Vision (feat. The Quantum)
19. Salvation

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L’inizio del terzo millennio, rappresentò un periodo di radicali cambiamenti per l’Hip Hop made in USA. Terminata una decade di dischi memorabili ed exploit discografici senza precedenti, l’interesse del pubblico virò verso prodotti decisamente più easy listening, coi suoni brillanti e patinati lanciati dai vari Timbaland, Swizz Beatz e relativi epigoni, a farla prepotentemente da padroni nei palinsesti radiotelevisivi. Con la chiusura dei battenti da parte della Rawkus, etichetta che più di tutte aveva portato agli onori delle cronache artisti indipendenti di grande spessore, le esperienze più avanguardistiche e sperimentali, a dispetto di uscite di elevata qualità e del plauso pressoché unanime della critica, si ritrovarono relegate a un hype mediatico irrisorio (per non dire inesistente).

Fu in questo clima di p(i)attume posto sotto i riflettori e fermento creativo sotterraneo che nel 2001, fecero la loro comparsa i Cannibal Ox. Guidati dalle produzioni e dalla direzione artistica dell’allora già celebre El-P, firmatario di uno dei dischi più rivoluzionari del decennio appena trascorso (Funcrusher Plus dei Company Flow), Vordul Mega e Vast Aire diedero un significativo scossone al già comunque attivo sottobosco musicale newyorkese. “The Cold Vein”, opera prima del duo del Bronx, si presentò come qualcosa di davvero mai sentito prima. Grossa parte del merito andava senz’altro rintracciato nelle produzioni di El-P, che smantellò e riassemblò a suo piacimento la grammatica fino ad allora masticata dal genere, facendolo dialogare tranquillamente con chitarre distorte e sintetizzatori acidi. Ma non si può certo sorvolare sull’incredibile opera lirica dei due mc, capaci di coniugare il linguaggio tipico delle strade del loro quartiere con un immaginario sci-fi da futuro distopico, androidi che sognano pecore elettriche e spacciatori di crack in attesa di clienti. Il tutto seguendo un’etica strettamente Hip Hop assolutamente radicale, avversa a qualunque tipo di compromesso con le esigenze del mercato e in cui l’attitudine papponeggiante in cerca di fama e denaro facili, veniva irrisa e vilipesa senza pietà. Nessuna concessione a brani radio friendly o adatti ai dancefloor dei club, né a video pacchiani popolati di balordi ingioiellati e formose signorine sculettanti.
Dopo un paio di anni passati a calcare i palchi di mezzo globo, il duo si separò a tempo indeterminato per dedicarsi a svariati progetti solisti. Ma nessuno di questi, riuscì minimamente a sfiorare le vette raggiunte dal primo lavoro in coppia. Rimasti orfani del loro mentore musicale, nonché terzo membro del gruppo a tutti gli effetti, era comprensibile la notizia del ritorno in tandem di Vast e Vordul ,suscitasse più di una perplessità in chi aveva amato il loro disco d’esordio. Perplessità fortunatamente ampiamente sfatate dall’uscita dell’EP “Gotham” nel 2013, succulenta anticipazione di quelli che sarebbero stati i Cannibal Ox a venire.

Uscito nel Marzo del 2015, “Blade of the Ronin”, portava quindi con sé un discreto carico di aspettative. Le produzioni questa volta, sono affidate quasi in toto a Bill Cosmiq, che probabilmente gli estimatori della doppia H più oscura e sotterranea, avranno già avuto modo di apprezzare coi The Quantum. Quasi, perché la base di “Blade: The Art of Ox”, porta la firma del sempre bravo Black Milk, che per l’occasione strizza l’occhio alle sonorità “shaolin” tanto care ai fan dei dischi targati Wu-Tang. Non a caso sul bellissimo tappeto fornito dal beatmaker di Detroit, troviamo a scambiare rime coi due cannibali U-God, che insieme ad un’altra storica coppia dell’hardcore rap, gli Artifacts, contribuisce alla traccia corale più riuscita dell’album. Quanto a Bill, sceglie saggiamente di battere strade differenti dal suo illustre predecessore, evitando così di incappare in improbabili paragoni. L’impianto sonoro di “Blade of the Ronin” trova la sua ossatura in batterie assai robuste, totalmente esentate dall’uso di clap e bacchette, in bassoni granitici al limite della pulizia sonora e in una sapiente miscela di sample e synth. Come il titolo potrebbe fare intuire, c’è molto oriente nella scelta e nel taglio dato ai campioni. Esempi lampanti di quanto detto, sono rintracciabili nel flauto giapponese usato in “Water”, che sembra provenire direttamente da un film di Kurosawa, o nel vocale femminile pitchato nel bellissimo collage di archi e tastiere di “The Power Cosmiq”. Atmosfere ora cupe e tese, ora epiche e trascinanti, si alternano per l’intera durata dell’album, senza nessun clamoroso calo di tono e, al contrario, fomentando in più di un episodio headbanging degni dei grandi classici del genere. I padroni di casa, li ritroviamo esattamente come li avevamo lasciati, ormai tre lustri or sono: freddo e distaccato Vordul Mega, a tratti quasi inespressivo e robotico, dotato di una personalità strabordante Vast Aire, la cui mole lirica sembra andare di pari passo con quella fisica. Due stili quindi diametralmente opposti, eppure, oggi come allora, dotati di una complementarità tale da sprigionare un’alchimia pressoché perfetta. I flussi di (in)coscienza sciorinati da due mc, attingono dalle fonti più disparate. Ritroviamo infatti riferimenti biblici (“Psalm 82”), letterari (“Opposite of Desolate” attinge a piene mani da “La metamorfosi” di Franz Kafka), alla filosofia orientale e naturalmente, alla fantascienza, da sempre caposaldo delle rime duo, anche nei lavori solisti.
Come già accadeva in “The Cold Vein”, spesso però la vera protagonista dei racconti è la stessa città di New York, passando da semplice teatro delle vicende narrate, a vera e propria entità senziente. Fredda, inospitale, crudele e spietata coi suoi abitanti. I numerosi ospiti chiamati al microfono, rispondono tutti nel migliore dei modi, sia che si tratti di nomi ben noti agli affezionati del rap a stelle e strisce, come i già citati Artifacts e U-God, Elzhi e, nientepopodimeno che MF Doom, o sconosciuti come Kenyattah Black e Double A.B.. Lo stesso Bill Cosmiq si cimenta con metriche ed incastri in un paio di episodi, con risultati tutt’altro che disprezzabili. Non ha molto senso isolare singoli episodi: “Blade of the Ronin” è un unico e articolato monolite, che richiede numerosi e attenti ascolti per essere scardinato nel suo ermetismo e per coglierne tutte le sfaccettature.

Certo, a volere cercare il pelo nell’uovo, si potrebbe dire che mancano incipit memorabili come “Life’s ill, sometimes life might kill” o “My mother said: << You sucked my pussy when you came out >> “. Ma sarebbe profondamente ingiusto e pretenzioso tacciare Vast e Vordul di incapacità di replicare i fasti di un’opera per sua natura irripetibile. E comunque, le rime che si faranno ricordare a lungo non mancano di certo : “…this girls is like Frankenstein, they got fake nails, fake hair and monster behinds”. Un gradito e assolutamente ben riuscito ritorno sulla scena insomma, manna per i nostalgici e ottimo pretesto per avvicinarsi a sonorità meno ovvie per i neofiti.

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