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De La Soul – And The Anonimous Nobody…

2016 - AOI Records
hip-hop

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Tracklist

1. Genesis (Feat. Jill Scott)
2. Royalty Capes
3. Pain (Feat. Snoop Dogg)
4. Property of Spitkicker.com (Feat. Roc Marciano)
5. Memory Of… (US) (Feat. Estelle & Pete Rock)
6. CBGBS
7. Lord Intended (Feat. Justin Hawkins)
8. Snoopies (Feat. David Byrne)
9. Greyhounds (Feat. Usher)
10. Sexy Bitch
11. Trainwreck
12. Drawn (Feat. Little Dragon)
13. Whoodeeni (Feat. 2 Chainz)
14. Nosed Up
15. You Go Dave (A Goldblatt Presentation)
16. Here In After (Feat. Damon Albarn)
17. Exodus

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“I couldn’t be nobody but myself”. E’ con queste parole che la voce di Jill Scott, introduce l’ultimo tassello di quel mosaico variopinto che è la discografia dei De La Soul. Un’affermazione che, come vedremo, si rivelerà vera solo in parte.

Ne è passata davvero un sacco di acqua sotto i ponti, da quando tre ragazzoni newyorkesi, rispondenti ai nomi di Pos(dnous) aka Plug One, Trugoy (oggi semplicemente Dave) e Maseo, diedero un deciso scossone alla scena Hip-Hop col loro album d’esordio. L’anno era il 1989, il disco “3 Feet High and Rising”, un vero e proprio gioiello d’innovazione e freschezza sonora che ebbe tra gli altri, il merito di portare alle orecchie del grande pubblico l’enorme talento produttivo di Prince Paul, nonché, la voce di un giovanotto che si presentava come “…the Q-Tip from A Tribe Called Quest…”. Un’uscita che conobbe quasi immediatamente un successo di pubblico e critica con allora pochissimi precedenti per il genere, cambiandone per sempre i connotati e influendo notevolmente su molti lavori della decade successiva. Tratti distintivi più rilevanti, furono il legame simbiotico con tutta la black music che li aveva preceduti, un occhio di riguardo per il dancefloor, approcciato in maniera tutt’altro che becera, intelligenza ed ironia nell’uso degli skit, parte integrante del disco e non semplice espediente per aumentare il minutaggio ma soprattutto, uno stile inconfondibile nell’affrontare la composizione e declamazione dei versi in rima, spesso con poca o zero voglia di prendersi sul serio. Senza però mai dimenticarsi di rivendicare orgogliosamente l’appartenenza alla comunità nera statunitense né, quando necessario, evidenziarne le evidenti contraddizioni. Tutti elementi cardine della musica dei De La Soul e che, uniti a una rara maestria nello sapere intrattenere, ne hanno fatto la fortuna fino ad oggi. Una delle carriere più longeve nella storia dell’Hip Hop, in grado di ingraziarsi simpatie anche al di fuori del proprio ambiente (chi non si ricorda “Feel Good Inc.” dei Gorillaz, uno dei singoli più trasmessi dalle radio nel 2005?) e di concepire album di grande spessore (volendo stringere al minimo, oltre al già citato disco di esordio, suggerirei di recuperare anche “De La Soul is Dead” e “Stakes is High”, datati rispettivamente 1991 e 1996). Il ritorno su supporto magnetico a ben 12 anni dal loro ultimo full lenght (escludendo raccolte, progetti paralleli e bootleg), è stato finanziato tramite una (fortunatissima) raccolta fondi su Kickstarter.

A seguito di diversi problemi avuti in passato con le autorizzazioni per l’uso dei campionamenti, i tre scelgono di usare come materiale di partenza le registrazioni di alcune jam session tenutesi nel 2015, da loro finanziate e organizzate per lo scopo. Ampiamente anticipato dall’EP “For Your Pain and Suffering” e dal graduale rilascio di diverse delle tracce che lo compongono, “and the Anonymous Nobody…” si rivela un ascolto più impegnativo di quanto si potesse immaginare. Lungo, articolato e ricco di ospiti, il disco rappresenta un ulteriore passo in avanti nella maturazione del trio di Long Island. Da sempre distintosi per eclettismo e gusto per la contaminazione, se da un lato riconferma un abbondantemente comprovato saperci fare al microfono e alle macchine, dall’altro lo mette alla prova in nuove dimensioni. Due intenti praticamente opposti e che infatti, talvolta cozzano uno contro l’altro. Un terzo del lavoro, viene a ricordarci qualcosa che in realtà, dovremmo sapere già bene: i geni della migliore tradizione musicale afro americana, da Sir Duke (Ellington) a Sly and the Family Stone, passando per Stevie Wonder, senza dimenticare il caro vecchio James Brown, sono intrinseci al DNA del gruppo. La marcia trionfale di “Royalty Capes”, il taglio anni ’70 di “Pain”, con Snoop Dogg che riconferma la tendenza a impegnarsi molto di più su lavori altrui che sui propri (senza tornare troppo indietro nel tempo, andate a risentirvi lo strofone killer lasciato su “One Shot, One Kill” di Dr. Dre), la breve ma intensa “CBGBS”, le tonnellate di groove di “Trainwreck” e “Nosed Up”, la delicata malinconia della conclusiva “Exodus”, sono esattamente ciò che ci si aspetterebbe da un disco dei De La.
E manco a dirlo, c’è ben poco da sindacare sulla classe sfoggiata in questa miscela di rap, funky e jazz, studiata per funzionare alla perfezione in studio e probabilmente anche meglio sulle assi di un palcoscenico. I risultati si rivelano alterni quando il terzetto opta per sonorità più morbide. Se “Memory of… (US)”, con la coproduzione di Pete Rock e la voce di Estelle e “Drawn”, affidata praticamente in toto agli svedesi Little Dragon, non nuovi a collaborazioni con artisti del panorama urban, possono considerarsi pienamente riuscite, “Greyhounds” va ad arenarsi in un R&B sintetico privo di mordente. Fallimentare in questo senso andare a riesumare quel tamarro di Usher per il refrain. Il discorso si complica quando vira su soluzioni più consone ad altri nomi. A dispetto della presenza di una figura importante come quella di David Byrne, “Snoopies” si rivela un pasticciaccio di rap e synth pop francamente dimenticabile. “Whoodeeni”, approdo a un sound familiare a rapper con mooolti anni di carriera in meno, è probabilmente l’episodio più debole del disco. Riuscita a metà invece “Lord Intended”, “…the hardest rock shit you’re gonna hear!”. Se infatti potrebbe essere una buona risposta alla domanda: “Come sarebbero suonati i Beastie Boys se fossero stati neri?”, Justin Hawkins che fa l’unica cosa abbia mai fatto, ossia imitare (male) Freddie Mercury, rovina l’ottimo amalgama tra rap e strumentale. Vanno invece a buon fine i contributi di Damon Albarn su “Here in After”, a metà tra reggae e pop rock, e di Roc Marciano che sulla robotica “Property of Spitkicker.com”, si riconferma uno degli mc più talentuosi della sua generazione.

Non si può poi parlare di un disco del genere (ma mi verrebbe da dire: di un disco rap) senza aprire una parentesi sui testi. Come si evince fin dalla copertina, Pos, Dave e Mase non sono rimasti affatto insensibili ai disordini inerenti la loro comunità negli ultimi tempi. Diversi sono i riferimenti fatti a quest’ultimi, spesso celati dietro intelligenti metafore e giochi di parole, che aumentano il grado di complessità generale. Più in generale, i testi sono frutto delle riflessioni di tre artisti ormai prossimi al mezzo secolo d’età, che oltre a guardarsi attorno, guardano al proprio operato domandandosi quale impatto possa avere sulle nuove generazioni. Non potrebbero infatti esserci parole migliori di quelle poste da loro stessi in fondo al disco per descriverlo: “ We are the present, the past and still the future. Bound by friendship, fueled and inspired by what’s at stake. Saviors, heroes? Nah. Just common contributors hopin’ that what we created inspires you to selflessly challenge and contribute. Sincerely, anonymously, nobody”.

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