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Nick Cave & The Bad Seeds – Skeleton Tree

2016 - Bad Seed Ltd
rock / songwriting

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Tracklist

1. Jesus Alone
2. Rings of Saturn
3. Girl in Amber
4. Magneto
5. Anthrocene
6. I Need You
7. Distant Sky
8. Skeleton Tree

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C’è stato un momento in cui ho creduto di aver capito chi fosse Nick Cave, penso dalle parti di “Dig, Lazarus, Dig!!!”. Poi è uscito “Push The Sky Away”. Allora mi sono detto: “Merda, mi sa che ho capito chi è Mick Harvey.” Solo che ora Harvey non è più uno dei Bad Seeds, quindi me ne faccio ben poco di questa mia sicurezza. Allora mi sono immerso in quel disco così strano, per Nick Cave, così ridotto al minimo indispensabile e, in fin dei conti, “elettronico”, sempre per Nick Cave, e mi sono detto “Adesso sì che ti ho capito.” Poi è uscito il docufilm “20.000 Days On Earth” e di nuovo i dubbi han finito per assalirmi. Tanti, per giunta. È così importante capire un artista? Sapere chi è IN FONDO? Neanche per sogno. MA (c’è sempre un MA) qua si parla del Re Inchiostro. La faccenda è differente. Nick Cave È i suoi dischi ed i Bad Seeds sono parte della sua anima impressa tra i solchi. Comprenderlo è parte integrante dell’atto di ascoltare un suo album. Ma ad ogni passo l’ombra si fa più fitta e cupa.

Qui nasce “Skeleton Tree”. Al buio e in silenzio, sottraendo e spingendosi oltre, cambiando, mantenendo una patina di se stessi impossibile da lavare via. La voce di Cave è appesantita, roca, spettrale, quasi un groviglio di cavi scoperti che pende dalla bocca. Appena dietro, Ellis dirige Sclavunos, Vjestica, Wydler e Casey verso un purgatorio grigio e senza fine, come se Caronte avesse smarrito la strada. “Jesus Alone” guarda indietro, molto indietro, gridando in distorsioni silenziose; “Rings Of Saturn” e “Girl In Amber” si prendono per mano, l’incursione elettronica spiega ali ferite dal canto strascicato del King Ink che finisce per aprirsi in un immenso lirismo infestato; “Magneto” è sporca di rumore, quasi fosse un pensiero meccanico, mentre i cavi scoperti schioccano a contatto con gli strumenti (pochi) e i sentimenti (tanti); il pianoforte di “Anthrocene” è un biglietto per il teatro dell’assurdo mentre il resto dell’ensemble si infiltra in sala facendo il diavolo a quattro; aprendo un cassetto rimasto chiuso sin dagli anni ’80 riemerge la melodia di “I Need You”, faticosa, epica e stonata, l’impresa Erculea del punk che vuole cantare il suo disperato bisogno di amore; Else Torp prende il posto che è stato di tante altre donne prima di lei, si siede al fianco di Cave e, assieme, disegnano l’enorme melodia di “Distant Sky”, stretti tra archi morbidi dal tepore corroborante. E alla fine arriva “Skeleton Tree” e suona come un lunghissimo saluto, polveroso e desertico, pulito e splendente, irradiato di una luce finora assente.

Così, Nick Cave, questa volta, è l’uomo che guarda il suo cuore intrappolato tra le ossa dell’albero, dal basso verso l’alto, le mani lungo i fianchi sussurrando qualcosa mentre i Bad Seeds intonano un coro d’accompagnamento, forte, chiaro nel suo essere contrapposto a questo lunghissimo piano sequenza.

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