Gonjasufi è l’acronimo di Sumach Ecks, ragazzone barbuto di quasi quarant’anni che nella vita fa il DJ, il musicista, l’attore, addirittura il maestro di yoga. Sei anni fa esordiva con il suo primo album in studio, “A Sufi And A Killer” e oggi ritorna con “Callus”, un disco difficile da pensare, da decifrare e da commentare, pubblicato per Warp.
“Callus” è più vicino a “MU.ZZ.LE” non soltanto cronologicamente: è un disco sporco, ruvido e oscuro, di deliri sperimentali e afflati post e horror punk, di psichedelia rigorosamente lo-fi. È un barcollare alcolico e caotico senza una meta, è calpestare lo schema della forma canzone e contemporaneamente lasciare un’impronta che non somiglia a niente che non sia se stessa. Tre croci in una copertina sobria, in bianco e nero, per un disco che s’apre con un rantolo, delle percussioni stonate e un accompagnamento minimale, ma fortemente evocativo. L’elettricità intermittente di “Afrikan Spaceship” anticipa la tenebrosa “Carolyn Shadows”, intrisa di fantasmi, di lamenti e suoni spettrali: forse i momenti migliori di “Callus”, che prosegue fra tinte orientali (“Greasemonkey”), percussioni tribali e sprazzi di rap (“Prints Of Sin”) e lo pseudo-mixtape di “Krishna Punk”.
Gonjasufi torna e lo fa a suo modo, proponendoci un’opera la cui urgenza di sperimentazione diventa a tratti smaccata: il californiano è un personaggio di un horror che si avvinghia al tuo collo, che ti spaventa senza fare del male e che riesce a suggestionare sino ad affascinare in una maniera morbosamente violenta. E “Callus” non può che esserne l’espressione artistica: un disco che sputa sull’idea di successo, ma che finisce per essere tremendamente autentico e ricercato, di sicuro per palati fini.