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Goat – Requiem

2016 - Sub Pop / Rocket Recordings
psych / folk / world music

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Tracklist

1. Union of Sun and Moon
2. I Sing In Silence
3. Temple Rhythms
4. Alarms
5. Trouble In The Streets
6. Psychedelic Lover
7. Goatband
8. Try My Robe
9. It's Not Me
10. All-Seeing Eye
11. Goatfuzz
12. Goodbye
13. Ubuntu


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Figli del Nord come molti dei gruppi metal più influenti del nostro tempo, ostinatamente imperscrutabili, circondati dal fascino di un anonimato autoindotto sin dall’esordio e da un alone di mistero che non accenna a diradarsi: stiamo parlando della più enigmatica tribù scandinava, di quel collettivo che dice di provenire da Korpilombolo, un villaggio della Svezia settentrionale ipotetico antico teatro di rituali vodoo, di quella band di cui non conosciamo nulla se non le maschere dietro alle quali i suoi membri continuano a celarsi. Siamo saliti per la prima volta sulla loro giostra quattro anni fa, abbiamo danzato sulle note di quella world music che, oltre ad aver dato il titolo al loro primo disco, veniva caratterizzata da retrogusti aciduli ed effetti lisergici, poi abbiamo assistito all’abbraccio fra il piglio hard rock psichedelico e l’umore afrobeat di “Commune”, oggi possiamo leggere il diario di un viaggio in tredici tappe al di là dell’equatore, fra scenari bucolici e atmosfere esotiche.

In nome di un sincero e serioso divertissement, i Goat continuano a mostrarsi sempre diversi dall’ultima volta e a materializzare tanti piccoli miracoli, esaltando la coerenza di una proposta artistica d’impareggiabile autenticità. In “Requiem”, rispetto al passato, si assiste a un imprevedibile ribaltamento di fronte: l’elemento tradizionale assurge per la prima volta al ruolo di nucleo di quella cometa la cui chioma è rappresentata dalle innumerevoli sfumature sonore squisitamente Goat. Il vagabondare della band si traduce nella sintesi di linguaggi diversi, a partire da “Union Of Sun And Moon”, dominata dai ritmi tribali e dai flauti andini dopo un’intro a cappella con sottofondo di rumori naturali. Se la danzante “I Sing In Silence”, fra cori femminili, percussioni e coloriture etniche, diventa un inno universale di fratellanza, “Temple Rhytms” intesse trame orientaleggianti e le orna con finiture psych, disegnando atmosfere che sembrano dar linfa alla leggenda di Korpilombolo. Proseguendo, ci si imbatte nel groove ipnotico di “Trouble In The Streets”, culla per voci femminee che cantano la pace prima che la chitarra spinga verso un allucinato finale in crescendo, poi nell’irresistibile blues di “Psychedelic Lover”.

Ma due pilastri del disco sono “Goatband” e “Goatfuzz”: il primo, nelle vesti di una jam session collettiva, propone una lunga cavalcata strumentale in cui gli stilemi tribaleggianti si fondono col blues rock, il secondo rappresenta l’incontro ideale di un hard rock acido e di suoni squisitamente afro, mentre fra i due s’inserisce “Try My Robe” coi suoi profumi indiani. Anche nel finale, con “Goodbye”, i Goat mantengono altissimo lo standard qualitativo grazie alla confluenza di tutte le idee sparse qua e là nel disco, non soltanto di quelle più forti: l’avvio è timidamente lisergico, poi un’improvvisa progressione rock and roll travolge tutto quanto capiti a tiro, influenze etniche e carezze jazzate comprese. A chiudere l’opera è “Ubuntu”, permeata da uno stato d’animo più cupo, ricca di echi di voci provenienti da epoche lontane e, paradossalmente, pure di synth che mantengono saldo il legame con l’oggi.

Requiem” è l’ennesima impresa degli svedesi: è un disco che idealizza una scrittura universale a partire da mondi, popoli e linguaggi sideralmente distanti, un’opera di grande spessore tecnico che non diventa mai stucchevole ma, anzi, rimane fruibile anche per i neofiti della world music. Dopo tre lavori così solidi, i Goat non possono più essere una sorpresa: l’auspicio è che il loro mistero possa continuare ad affascinarci e tormentarci ancora per molti anni.

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