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Non c'è più il jazz di una volta

ARTO LINDSAY: il corpo sottile della no wave

Butta via il grammofono
Piantala col telegrafo
Con ‘sto swing ora basta
Voglio solo roba molesta
É questo il jazz che ho in testa

Inserire un personaggio anomalo e complesso come Arto Lindsay nella mia rubrica sul jazz può risultare forzato, forse. Ma già solo il fatto che Lindsay sia, per definizione ampia, e di certo non del tutto personale, “anomalo e complesso” potrebbe far chiudere un occhio ad uno o più puristi (ammesso e non concesso che ce ne siano all’ascolto) e lasciare che il chitarrista/compositore venga naturalmente attratto dal mondo di “non c’è più il jazz di una volta”.

Per Lindsay pare non esserci mai stato un “jazz di una volta”, tantomeno un “rock di una volta”, o un “punk”, e via dicendo, ma di certo il passato ha giocato un forte ruolo nell’economia della crescita di questo incredibile artista e dei movimenti che si sono creati attorno a lui. Andando per gradi, e per importanza d’informazioni, Lindsay pur essendo nato negli Stati Uniti, è cresciuto in Brasile e qui ha fatto sue informazioni basilari per quello che sarà il suo percorso musicale. Venendo a contatto sin da subito con la Tropicalia, movimento brasiliano atto a fondere tradizione e avanguardia, influenze radicate nella propria cultura e movimenti provenienti dall’estero, e in forte opposizione all’oscurantismo militare e censorio presente in Brasile negli anni ’60.

Alla domanda se gli artisti facenti parte di questo movimento avessero introdotto elementi americani ed europei nel proprio corpus musicale giusto per portarli ad un audience che amava fondamentalmente i Beatles Arto risponde così: “No, assolutamente no. Lo hanno fatto perché è venuto naturale. Amavano quel tipo di musica. In pratica era una presa di posizione in opposizione al fatto che la musica di quei Paesi venisse bollata come imperialista o chissà cos’altro. La musica cosiddetta seria doveva essere solo brasiliana. Le persone di sinistra, che erano tutti ragazzini della classe media, idolatravano compositori e cantanti di samba poiché erano poveri. Questa gente odiava la musica straniera. C’era già qualcosa di brasiliano influenzato dal rock and roll e su quanto stesse accadendo ovunque nel mondo e Caetano Veloso, Gilberto Gil e Tom Zé, oltre a persone che non si occupavano di musica, ma che facevano parte del movimento tropicalista, amavano i Beatles ed erano consapevoli di ciò che significavano al di là della musica. Non vedevano nulla di male nell’aprirsi a gusti musicali “altri”, infrangendo barriere culturali e portando diversi gusti nel proprio retaggio di base.

Dunque nella testa di Arto l’idea di ampliare la propria cultura musicale e mischiarsi con il più alto numero di generi possibile era presente già in giovane età, immerso com’era in un movimento così importante e in un momento di buio destinato a protrarsi ancora a lungo, ma ponendo gli artisti in questione a farsi avanti nel mondo della musica. Lo spostamento dal Brasile a New York City è quindi l’inizio di un percorso di ibridazione continua che lo porterà ben presto a diventare parte integrante di una delle scene più importanti per il cambiamento della musica “altra” nel mondo, ossia la no wave. A suggellare il patto tra Lindsay e questa branca distruttiva di rock e punk è l’incontro con Robin Crutchfield assieme al quale, nel 1978, fonderà una delle band più influenti di questo particolare “genere” ossia i DNA. Ben presto i due ampliano la formazione inserendo Gordon Stevenson, già bassista dei Teenage Jesus And The Jerks di Lydia Lunch, e la sorella di Exene Cervenka degli X, Mirielle. Questa line up non arriverà ad esibirsi al primo live del gruppo, bookato da Terry Ork della Ork Records poiché Gordon e Mirielle lasciarono la band, “obbligando” i due a reclutare la batterista Ikue Mori, che entrerà in pianta stabile nella band. Una vera fortuna, considerando che Mori diventerà un punto fisso, per dire, nelle fila di moltissimi progetti targati John Zorn, per dirne una. I tre registrano un 7” e un brano viene inserito da Brian Eno nella compilation “No New York”, facendoli entrare nel cosmo delle band che diedero forma, e vita breve, a questa nuova ondata di assurdità.

Anche Crutchfield prende la sua strada e abbandona i DNA, sostituito dal bassista dei Pere Ubu Tim Wright, e subito i tre danno alle stampe l’ultimo EP del gruppo prima dello sciogliemento. I DNA, pur con pochissime sortite nel mondo discografico assurgono, giustamente, alla posizione di band leggendaria, avendo scomposto in mille parti il nascente/morente mondo del punk e tenendosi alla larga da quello che diventerà poi l’hardcore, ossia un carrozzone per ragazzini incazzati. A rendere unica l’esperienza dei DNA è stato il modo totalmente non convenzionale con il quale Lindsay si rapportava al proprio strumento, ossia la chitarra: “Amavo Hendrix, non solo il suo modo di suonare o le sensazioni libere che esprimeva, ma anche il rumore, le esplosioni, tutte queste cose. Amavo anche le band che aveva Miles Davis negli anni ’70, con tutti quei chitarristi pazzi come Pete Cosey e tutti gli altri. Quando ho iniziato a suonare volevo venirmene fuori con qualcosa di diverso. C’erano un sacco di idee nell’aria, tra John Cage e William Burroughs, c’era una forte concentrazione sul ritmo e su cosa la musica potesse fare, il che poteva farti, diciamo, impossessare da un certo tipo di spirito. Ero interessato a ciò che riguardava la religione Afro-Brasiliana, poi ho scoperto che Burroughs era interessato alla musica marocchina e come essa “servisse” a scacciare gli spiriti maligni. La gente è rimasta sorpresa dai DNA, erano tutti tipo ‘a voi non frega niente del pubblico’. E in effetti non eravamo interessati a dar al pubblico cosa voleva. Non era proprio questo il punto. Era più come se volessimo dar loro ciò che volevano davvero. Non ci interessava interagire in un determinato modo col pubblico, non volevamo essere altri Iggy Pop o Bruce Springsteen.

Un pensiero forte e in un mondo che si stava aprendo alle icone vere e proprie, ancora più di quanto non fosse già successo con Beatles e Rolling Stones (o Iggy e Bruce, per dirla con Arto). Un mondo che al chitarrista non interessava proprio, segno è il suo “rintanarsi” con forza all’interno di una nicchia ancor più oltranzista. A New York il rumore era di casa e anche il mondo del jazz finiva per emettere la stessa quantità di noise propria di rock e punk, come dimostrano i The Lounge Lizards, debilitante formazione in cui il nostro troverà casa ideale. Capitanati dai fratelli John ed Evan Lurie e completati da Steve Piccolo e dal batterista Anton Fier. Il risultato di questo folle combo è il primo disco omonimo prodotto dal leggendario Teo Macero e che racchiude in sé tutto il disastro del jazz d’avanguardia di quegli anni di confine: furia iconoclasta punk, colate di art rock a piene mani e tanta, tantissima classe. Prendere la lezione di Ornette Coleman, del Davis elettrico e di Monk diventa imperativo delle Lucertole, in tutta la loro breve ma intensa carriera.

https://www.youtube.com/watch?v=mFgO23NBaCU

Conclusasi la collaborazione con i The Lounge Lizards (e lasciato il posto ad un altro fenomeno chiamato Marc Ribot) la collaborazione con Fier continua sin dal 1983 nella creatura partorita dal batterista e chiamata The Golden Palominos. Volete chiamarlo supergruppo? Siete autorizzati a farlo poiché i nomi coinvolti nel progetto sono quelli di Bill Laswell, Michael Beinhorn (diventato con gli anni produttore di punta di un certo rock anomalo seduto dietro al banco mix per conto di Marilyn Manson, Red Hot Chili Peppers, Soundgarden, Korn e via dicendo), Fred Frith e John Zorn. Il discorso portato avanti dall’ensemble è una versione matura della no wave furiosa dei DNA, arricchita dalla presenza di gente dal calibro altissimo ed incommensurabile. Il primo omonimo disco dei Golden Palominos è un coacervo micidiale di tutto ciò che ribolle nel sottosuolo della Grande Mela in quegli anni, tra funk allucinato ibridato all’hip hop delle origini, svisate jazz core in giacca e cravatta e anomalie no wave in piena regola, il tutto fuso assieme non si sa come.

Fier ed io siamo stati assieme nei The Lounge Lizards” racconta Arto “e volevamo chiamare la band “Golden Palominos” ma abbiamo perso il voto. Quando abbiamo lasciato il gruppo volevamo fare delle cose nostre, ma non parlavamo lo stesso linguaggio. Io non avevo idea di come si suonasse, e il modo in cui ragionavo era preso in prestito da altre forme d’arte. Avevo un’idea basilare di come si strutturassero i brani e quando io e Anton provammo a scrivere qualcosa fu davvero difficile. Allora siamo andati in studio portandoci dietro tutta questa gente. La mia relazione con Zorn era molto stretta anche al di fuori dei Palominos mentre non si può dire lo stesso con Laswell, a parte il fatto che avevam già suonato assieme. Io e Fred ci conoscevamo fugacemente al tempo, e solo anni dopo ho avuto davvero modo di suonarci e conoscerlo.

La musica dei Golden Palominos è figlia del trait d’union tra Zorn e la follia di Lindsay degli anni dei DNA, tra una dose determinata, e determinante, di improvvisazione e studio del ritmo, proprio del jazz moderno, più di quanto non sia stato in passato, insomma. Ma il cambiamento è letteralmente dietro l’angolo, così nel 1984 si forma un nuovo sodalizio tra Arto e il compositore svizzero Peter Scherer: i due danno i natali, così, agli Ambitious Lovers. Questa nuova creatura è una novità in senso strettissimo. Abbandonata in maniera decisa l’idea di no wave e di rumore a tutti i costi arriva il momento di darsi al pop. Torna con prepotenza l’influenza brasiliana e il risultato è il bellissimo album intitolato “Envy” (licenziato dalla E.G. Records di David Enthoven e John Gaydon, manager, tra gli altri, dei King Crimson), un mix pazzesco di synth pop, funk minimale, ritmi tropicali e un forte, fortissimo amore per le composizioni di Caetano Veloso. Il disco ci mostra una mutazione vocale da parte di Lindsay verso una direzione più pulita, benché men che mai consona, nonostante le, sempre più rare, incursioni nel suo folle lato punk (che non sono ancora comunque scomparse del tutto).

A riguardo il chitarrista ebbe a dire: “Ho cercato di imparare a cantare. Volevo, dopo le mie esperienze con i DNA e i Palominos, creare una band che incorporasse influenze samba e brasiliane, in qualche modo, e anche di soul music. Avevo già del materiale per gli Ambitious Lovers prima di incontrare Peter. Sarò onesto: avevo bisogno di qualcuno che conoscesse il lato tecnico di questo tipo di musica. Così abbiamo sperimentato mischiando roba R&B, sperimentale e altre cose brasiliane, ho cazzeggiato programmando percussioni sintetiche e altre prettamente live ed ecco come il tutto ha cominciato a funzionare dal punto di vista ritmico.

https://www.youtube.com/watch?v=H2qyBmEBHao

Ben lontano dai salotti del jazz che si venivano a formare in quegli anni ma anche tremendamente vicino al modus operandi della nuova ondata jazzistica della scuola zorniana, Arto si ritrova in un mondo assai più pulito di quanto si potrebbe immaginare e “Greed”, il secondo album della sua nuova band ne è perfetta dimostrazione. A coadiuvare il duo ci sono mostri di peso come Vernon Reid dei Living Colour, lo stesso Zorn, il fenomenale batterista Joey Baron e Bill Frisell, immersi in una situazione pop marziana. La semplicità del precedente “Envy” è qui spinta in una situazione da dance floor alieno e si erge sullo stuolo di band carbon copy che sgomitano negli anni ’80 (qui al termine essendo il 1988), pur non ottenendo il successo e il riconoscimento agli occhi del grande pubblico troppo impegnato a guardare altrove.

Nonostante il Nostro si dica lontano dall’esser capace di ciò che fa, tecnicamente parlando, o anche solo consapevole si ritrova, l’anno successivo, dietro al banco mix di musicisti di livello altissimo come Laurie Anderson, Bill Frisell e, finalmente, Caetano Veloso. Di quest’ultimo produce “Estrangeiro” e lo fa in coppia proprio con Scherer e il loro zampino si sente eccome. Al fianco della bellissima voce di Veloso e delle ritmiche tropicali si stagliano batterie sintetiche spintissime, chitarre allucinate e una pulizia incredibile del suono e tutta la classe synth pop/funk degli Ambitious Lovers.

https://www.youtube.com/watch?v=vyicli3QkOo

Gli anni ’80 finiscono così in bellezza ed è tempo, nel ’94, di entrare in studio con David Byrne e mettere lo zampino sul disco omonimo dell’ex Talking Heads. Manco farlo apposta è l’album con più influenze tribali ed esotiche, nonché uno dei suoi dischi migliori sulla lunga distanza. Lindsay produce e mette le sue mani di chitarrista su un solo brano (“Back In The Box”, che dà una bella botta di super funk eighties come si deve in questi anni grunge). Tempo due anni e Arto si prodigherà nell’uscita del suo primo album in “solitaria” intitolato “O Corpu Sotil: The Subtle Body”. Perché solitaria è tra virgolette? Perché assieme al Nostro c’è uno stuolo di musicisti da far infartare il più duro dei duri: Amedeo Pace, componente dei Blonde Redhead (sapete bene chi sono, e saprete anche che prendono il loro nome da una canzone dei DNA), Brian Eno, Joey Baron, Bill Frisell, Caetano Veloso, Ryuichi Sakamoto, Cyro Baptista, Yuka Honda dei Cibo Matto, Marc Ribot e via così. Un vero pantheon della musica allucinata per un disco di una bellezza più unica che rara che fonde in un unico album tutte le influenze più raffinate di Lindsay e che spiana la strada per una discografia sempre più votata al downtempo, alla bossanova, all’astrattismo pop e ai ritmi brasiliani che vedono “Invoke” e “Salt” come album chiave della propria evoluzione stilistica.

Il cerchio di questo viaggio al di là del jazz anomalo lo chiudiamo, invece, tornando proprio a casa. Lindsay si ritrova in studio con Paal Nilssen-Love, batterista, tra gli altri, dei The Thing, e si prodiga a spolverare le proprie sinapsi distruttive, lasciate tra i solchi dei DNA. I due danno vita ad un album di improv micidiale intitolato “Scarcity”, che racchiude in sé tutta l’urgenza del delirio inondata da un quantitativo di elettricità spaventoso e impreziosito dalla morbosità percussiva del norvegese.

Io concludo, invece, dicendo che Arto Lindsay è quanto di più jazz si possa ascoltare senza farlo davvero, re di un viaggio obliquo ed autista di classe superiore, capace di mischiare in due sole mani un intero mondo, dal delirio più assoluto al sole più caldo.

P.S.: se volete farvi un’idea più ampia della discografia solista del Nostro vi consiglio di procurarvi una copia del CD “Encyclopedia Of Arto”. Fidatevi di un cretino.

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