1. Rabbot Ho
2. Captain Stupido
3. Uh Uh
4. Bus in These Streets
5. A Fan’s Mail (Tron Song Suite II)
6. Lava Lamp
7. Jethro
8. Day & Night
9. Show You The Way [feat. Michael McDonald and Kenny Loggins]
10. Walk on By [feat. Kendrick Lamar]
11. Blackkk
12. Tokyo
13. Jameel’s Space Ride
14. Friend Zone
15. Them Changes
16. Where I’m Going
17. Drink Dat [feat. Wiz Khalifa]
18. Inferno
19. I Am Crazy
20. 3AM
21. Drunk
22. The Turn Down [feat. Pharrell]
23. DUI
Non dovrebbero essere necessari troppi preamboli per introdurre la figura di Stephen “Thundercat” Bruner, data la sua assoluta centralità negli sviluppi della black music dell’ultimo lustro. Bassista, compositore, producer e cantante di formazione prettamente jazzistica, inizia a mettere in evidenza le proprie doti con una militanza quasi decennale nei Suicidal Tendencies. Tanto gli basterà per essere chiamato a imprimere il proprio inconfondibile tocco ai dischi più recenti di giganti della musica contemporanea come Erykah Badu e sopratutto Flying Lotus, col quale a partire dal 2010 stringerà un fruttuoso sodalizio produttivo. Oltre a rilasciare tre lavori solisti, non si può poi sorvolare su come nel suo passato più prossimo abbia dato un decisivo contributo a dischi acclamati come “To Pimp a Butterlfy” di Kendrick Lamar e “The Epic” di Kamasi Washington.
Se nei lavori altrui ha stupito per versatilità e padronanza del proprio strumento, la linea mantenuta nella produzione a proprio nome ha sempre mantenuto una direzione piuttosto precisa. Vale a dire: un diretto rimando alle sonorità e alle strutture di certo pop arrangiato secondo stilemi tipicamente neri, collocabile tra la fine degli anni ’70 e la prima metà della decade successiva. Scelta sicuramente discutibile ma non priva di risvolti interessanti, dati l’eclettismo e l’evidente dimestichezza con le tecnologie più moderne dimostrati a più riprese dall’autore.
Salvo una tracklist decisamente più corposa, “Drunk” non presenta grosse novità rispetto ai suoi predecessori. Il mai celato amore di Thundercat per gli anni ’80, viene portato a un livello superiore con l’inserimento di Kenny Loggins e Michael McDonald nel singolo apripista “Show You The Way”. Pezzo molto soft che, piaccia o meno, bisogna ammettere funzioni dannatamente bene, non sfigurando affatto se confrontato con alcune hit risalenti all’epoca in cui i due attempati signori presenziavano nelle chart di mezzo globo. Molto bello il contrasto tra il falsetto del primo e il timbro profondo del secondo.
La vena più sperimentale manifestata dal musicista in altre occasioni, viene quasi completamente accantonata in favore di una più compiuta e lineare quadratura del cerchio. Scelta che purtroppo, si rivela un’arma a doppio taglio: se da un lato l’omogeneità generale dà l’idea di un album maturo e di un musicista con le idee chiare, l’eccessivo ricorso ad atmosfere suadenti e rilassate, sulla lunga distanza rischia di annoiare. Sono infatti almeno due i punti in cui l’album si arena, smorzando un potenziale che rimane solo tra le righe. Per la precisione: nel blocco di pezzi che va da “A Fan’s Mail (Tron Song Suite III) a “Day & Night” nella prima metà, e in quello che va da “I Am Crazy” alla conclusiva “DUI” nella seconda.
A maggior ragione risulta difficile spiegarsi l’inserimento in scaletta di molte tracce assai brevi. Le quali appaiono più come abbozzi d’idee abbandonate che pezzi veri e propri. E se per “3 AM” o la già citata “I Am Crazy” ci si può tranquillamente tenere il dubbio, spiace “Jethro” o la zappiana “Captain Stupido” non siano state sviluppate oltre, dato il notevole cambio di registro che costituiscono rispetto al resto del disco. Sebbene non ci si allontani nemmeno per un istante dai binari dell’eccellenza, sia a livello esecutivo che produttivo, troppi passaggi finiscono per suonare come meri riempitivi. Difficile celare il disappunto davanti a un artista di questo calibro che si limita a eseguire il compitino, anche se indubbiamente portato a termine con classe e stile invidiabili.
Impalpabili gli interventi di Kendrick Lamar e Pharrell, che al pari di chi li ospita fanno tutto benissimo ma in sostanza non aggiungono nulla di rilevante. Discorso diverso per Wiz Khalifa, come sempre intento a raccontare quanto ami fare baldoria. L’unico motivo per cui la sua performance possa sembrare più interessante del solito, è che stavolta a curare produzione e ritornello c’è qualcuno non avvezzo al confezionamento di facili motivetti per teen ager. Insomma, tutto ben fatto ma noioso e prevedibile? Grazie al cielo no.
Costruita attorno a un sample degli Isley Brothers e impreziosita dalla collaborazione di Kamasi Washington, “Them Changes” è una botta di funk provvidenziale che scuote dal torpore e fa ballare e cantare alla stragrande. “Uh Uh” è un più che legittimo momento autocelebrativo, in cui il basso se la canta come una ninfomane a un congresso di superdotati in astinenza.“Tokyo” porta quel pizzico di stranezza che tanto avrebbe giovato sparsa qua e là per il disco mentre “Friend Zone” e “Inferno”, sono probabilmente depositarie dei più esorbitanti quantitativi di quella classe di cui si è già detto.
E’ un peccato che quest’ultima fatica del buon Stephen, ai dischi citati in apertura possa giusto guardare col binocolo. Ma la mancanza di mordente e inventiva manifestate per una metà buona del disco, impediscono agli episodi migliori di splendere a dovere nell’eccessiva uniformità globale.