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Depeche Mode – Spirit

2017 - Columbia
electro / pop / industrial

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Tracklist

1. Going Backwards
2. Where's The Revolution
3. The Worst Crime
4. Scum
5. You Move
6. Cover Me
7. Eternal
8. Poison Heart
9. So Much Love
10. Poorman
11. No More (This Is The Last Time)
12. Fail


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Non ci sarebbe alcun bisogno di introdurre realtà come i Depeche Mode. Le istituzioni viventi, e per viventi non intendo solo attive bensì VIVE in senso molto ampio, poiché molte altre band storiche di questo tipo esistono pur puzzando di morto lontano un miglio, non hanno bisogno che uno scribacchino come me parli di quanto grandiose sian state, lo si sa già. Il punto chiave è che Martin L. Gore, Dave Gahan e Andrew Fletcher potrebbero tranquillamente vivere di rendita ed “Enjoy The Silence” fino al giorno della propria dipartita terrena. E invece no.

Non è nel mio stile promuovere le eminenze grigie (e questi tre lo sono in pieno) a prescindere dal contenuto dei nuovi album e quindi il giudizio che segue è privo del condizionamento verso le grandi proprio degli arbitri di calcio italiani. Dunque: sin dal ritorno all’attività (in concomitanza col ritorno dal mondo dei morti di Gahan) i DM ci hanno abituati a non aspettarci mai un vero e proprio guardare indietro alle origini tanto per mantenere uno status quo ordinario tipico delle band di questo calibro (leggi Rolling Stones ecc. ecc.) sia nel bene che nel male. Ma, d’altronde, è un’evoluzione che dura sin dal 1981, quindi perché incominciare ora? Con questo non mi rimangerò il giudizio negativo che ho espresso in sede privata nei confronti dello scialbo “Sounds Of The Universe” (se siete contrari al mio punto di vista potete commentare in seguito con il vostro fare tuttologo ed eminente, a me non cambia un cazzo) né rimetterò tanto facilmente sul piatto “Exciter”. Ciò detto passiamo a “Spirit”, quattordicesima fatica in studio dei nostri che marca un ulteriore passo avanti nel loro immenso corpus discografico.

Il singolo apripista “Where’s The Revolution” delinea connotati di un’antica avvisaglia “punk”, da sempre nelle corde più nascoste del trio, nella fattispecie in quelle di Gahan, e pur non essendo lui l’autore del brano, dà adito a quanta irrequietezza si cela sottopelle negli artisti del Vecchio Continente tramite un testo che non lascia intendere nulla se non diverse accuse precise e mirate, sorrette dalla solita classe elettronica aliena. Tra le spire della opener “Going Backwards” si muove tutto l’amore per il blues di Gore, intarsiato di sfavillante elettrostasi luminescente ed uptempo. Il disco si tinge di oscurità ed ombre traboccanti malinconia che allungano le proprie spire su “The Worst Crime”, con la chitarra che accompagna un ritmo da marcia funebre verso il patibolo serrandosi su una prova vocale vicina alle ultime produzioni del King Ink.

Con “Scum” si finisce catapultati in una dimensione da club ultraterreno complice l’aggressione distorta di voce e synth che attaccano i padiglioni auricolari senza mezzi termini, aggressività che entrano in scivolata a piedi uniti sull’industriale sensualità sotterranea della splendida “You Move”. Quando è Gore a fare gli onori di casa il cambio di rotta si fa più complicato e a dimostrarlo sono l’atonale ballad noise “Eternal” o il synth (anti)pop intriso di soul ferale della conclusiva “Fail”. “Poison Heart” si aggiudica, invece, l’immaginifico premio di punto più alto dell’intero lotto con il suo storto incedere ultra-pop che non lascia scampo, destinato ad incidersi a fuoco nella testa di qualsiasi ascoltatore, a dimostrazione del fatto che questi signori sono ancora i capi quando si tratta di scrivere un ritornello immortale (effetto che si ripercuote anche su “No More (This Is The Last Time)”).

Insomma che cazzo volete che vi dica ancora dopo ‘sto fiume di parole? “Spirit”, grazie alla vena artistica ancora traboccante dei DM e alla spettacolare produzione di James Ford, si piazza tra i momenti più alti della loro storia recente, facendo piazza pulita di giovani virgulti e quant’altro si trovi in giro ora ed in netto contrasto con il minimalismo del penultimo “Delta Machine”. L’ho già detto che sono i capi? Sì? Repetita iuvant.

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