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Pietre miliari

“Ultra”, il personale mito della fenice dei Depeche Mode

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Perché il nono album di una band dovrebbe essere importante a tal punto da segnare la data sul calendario e scriverne un articolo? Anzitutto – ed è la mia parte “musicista” a parlare in questo caso – arrivare alla nona prova in studio per una qualsivoglia band è un’impresa tutt’altro che semplice. Se poi questa band si chiama Depeche Mode le difficoltà sembrano duplicarsi di punto in bianco. “Ultra” non è solo un gran bel cazzo di disco, nossignori, è anche un lavoro di rinascita in senso ampio, una sorta di secondo primo album.

È proprio ciò che avviene al di fuori del discorso prettamente musicale a mostrare la via al trio di Basildon, ed è una strada tutta in salita, soprattutto dalla fine del tour di “Violator” in poi. Per i Depeche Mode il successo è stato violento e forse inaspettato. Tante realtà musicali della rivoluzione synth-pop che hanno proliferato e raggiunto vette importanti in classifica negli anni ’80 hanno dato prova di non sapersi reinventare, di non riuscire a dare adito ad una svolta che avrebbe potuto portarli fuori a testa alta dalla “decade di decadenza” (indovinate la citazione) più plastificata della storia della musica moderna battuta solamente dai nuovi anni ’10 che stiamo vivendo proprio ora.

Oltre ai DM sono sopravvissuti quasi esclusivamente i Duran Duran (e forse anche i New Order ma con risultati piuttosto deludenti), rei però di aver mantenuto un particolare status quo all’interno del proprio percorso artistico, fermandosi alle hit da classifica carine ma prive di contenuti degli anni ’90 a differenza della creatura di Martin L. Gore che già dal succitato “Violator” si stava smarcando in via del tutto definitiva dalla materia synth / wave tout court che hanno modellato dalle forme industriali del periodo appena precedente, cominciando così a mostrare la strada alle generazioni con cui vengono a contatto, un effetto che si ripercuote ancora ai giorni nostri sulle più disparate realtà musicali (ascoltatevi il nuovo album dei campioni dell’avanguardia norvegese Ulver e poi ditemi se non ho ragione). “Songs Of Faith And Devotion” segna la fine di tante cose, forse anche la fine della band in senso stretto, ma non abbastanza da eliminarla dai radar. 

Proprio nel periodo del loro ottavo album in studio Dave Gahan sembrò invaghirsi dell’ondata nascente del grunge e a dimostrarlo c’è sì un evidente e preciso modo di vestirsi contrapposto all’eleganza ostentata fino a poco prima, ma anche un crescente amore per le droghe, una fascinazione pericolosa che lo porterà a tentare il suicidio nel 1995 e ad oltrepassare i confini del mondo dei vivi per ben due minuti l’anno seguente in seguito ad una devastante overdose (non di certo la prima): “Ero diventato una parodia di me stesso.” – racconta a Rolling Stone nel 2007 – “Non penso fosse una trasformazione avvenuta nottetempo. Credo che ad un certo punto devo aver pensato di essere qualcosa di diverso e speciale e di sicuro durante il periodo di “Songs Of Faith And Devotion” ho portato questo treno al capolinea. […] A metà degli anni ’90 ovunque mi girassi qualcuno moriva. Non solo i membri delle band ma anche le persone con cui uscivo. Ad un certo punto ho pensato ‘forse devo arrivare anche io in fondo a questa strada.’ Non c’era una volontà conscia di autodistruggermi, ma di certo non volevo rimanere qui. Non aveva, però, nulla a che vedere con il mio ruolo nella band. Infatti era l’ultima cosa di cui mi preoccupavo. Mi ricordo che Martin mi chiamò durante il periodo di registrazione di “Ultra”. Ero completamente andato e lui mi disse ‘Vogliamo finire questo album? O devo finirlo per i fatti miei?’ Io gli risposi ‘Non me ne fotte un cazzo, sono nei guai.’

Rinascere comporta sforzi immensi. Non è una cosa che accade tutti i giorni e la gestazione del disco si è dimostrata essere complicata per svariati motivi, anche se quello preponderante era la situazione psico-fisica del cantante. La defezione avvenuta alla fine del tour precedente da parte di Alan Wilder, in forze nella band sin dal 1982, e l’esaurimento nervoso di Andy Fletcher avevano portato tutto ad uno stallo forzato, in netta contrapposizione con l’iperattività di Gore. La band aveva raggiunto un picco di autoindulgenza senza pari e un punto di isolamento che in una realtà di gruppo può portare solo alla fine di un’avventura. Ma in questo caso la forza di volontà ha la meglio su un fato portato dai membri stessi ad essere più oscuro di quanto si potesse immaginare.

Durante le interviste del 1997 la suddetta divisione era ancora presente ma mostrava lati differenti. In molte occasioni Gahan ha preferito non parlare davanti ai suoi compagni, soprattutto della sua spirale discendente nella disperazione e nella droga. Il punto di vista di Martin ed Andy è comunque importante per capire come andavano le cose nel periodo successivo alla tragedia: “Quando ti arriva una chiamata ed è il tuo manager che ti dice ‘devo parlarti di Dave perché è successo qualcosa di veramente brutto’ il primo pensiero che hai è ‘oh mio Dio, questa è la volta buona’ ed è già accaduto due volte. È davvero terribile.” Per Martin è un miracolo che Dave sia ancora in piedi e continui a cantare, e questo suo modo di accettare la cosa fa parte della strana coesione del gruppo.

La convinzione del cantante che ai suoi compagni di band non fottesse nulla della propria salute fisica e mentale lo ha portato a dubitare di loro, senza rendersi conto, invece, che l’isolamento era autoindotto, poiché la verità stava da tutt’altra parte. Più volte, infatti, è stato consigliato loro di “cacciare a calci nel culo” Gahan e trovare un sostituto ma per Fletch è una possibilità da escludere a priori: “Quando Dave stava male un sacco di persone ci hanno detto ‘perché non lo mandate via?’ ma lui non sarebbe mai venuto da me a dirmi ‘Andy, Gore sta male, cerchiamoci un altro songwriter.’ La sua voce e le canzoni di Martin SONO i Depeche Mode.” Forse i tre non saranno amiconi (anni dopo il cantante ammise, dopo un complimento in pubblico da parte di Martin, che era la prima volta sin dalla loro formazione che il compositore gli rivolgeva una simile attenzione) ma la lealtà è grande ed è questo a rendere unica questa band.

Ma torniamo al disco. I tre scelgono Tim Simenon come produttore per condurli verso la loro “nuova vita”, interrompendo di fatto la fruttuosa collaborazione con Flood. Simenon era noto per aver lavorato con Neneh Cherry sul suo strepitoso debutto “Raw Like Sushi” e su “Universal Mother”, quarto album di Sinéad O’Connor. Martin parla così di questo cambio della guardia: “Abbiamo inciso i due ultimi album con Flood e sentivamo di dover guardare altrove. Ovviamente è stata una scelta difficile. Abbiamo perso un membro e sentivamo di dover colmare un vuoto. Ho pensato che lavorando con Simenon avremmo posto rimedio a questo vuoto soprattutto perché si portava dietro un intero team che comprendeva un ingegnere del suono, un tizio che lavorava al programming e un tastierista [rispettivamente Q., Kerry Hopwood e Dave Clayton, ndr]. La cosa più importante per me era la presenza di un tastierista. Io sono un autodidatta mentre Andy è il vero musicista del gruppo. Ma la presenza di questa squadra ci ha portato verso un metodo lavorativo completamente diverso.

Il tutto inzia qualche anno prima da Daniel Miller, altro collaboratore di lunga data di Gore e soci: “Un giorno, nel 1988, Miller mi chiese di lavorare ad un remix di “Strangelove”; fu il mio primo vero e proprio remix. Quando Alan Wilder lasciò la band e loro cercavano un nuovo produttore il mio nome era già nell’aria.” – ammette Simenon in un’intervista del 2012 – “Penso che a Marty e a Dave fosse piaciuto l’album di Gavin Friday che avevo completato l’anno precedente. Così ricevetti un’altra chiamata da Miller che mi disse che la band voleva incontrarmi per farmi sentire alcune demo che avevano registrato. Così andai nel loro ufficio ed ascoltai le canzoni e, pur essendo ancora ridotte all’osso, mi colpirono all’istante

Immancabile invece è la presenza di Anton Corbijn sul versante estetico, essendo diretto responsabile di artwork, foto e video della band. La novità che viene a galla, sempre secondo Martin, è che Corbijn sia, prima di un ottimo fotografo (negli anni il nostro ha immortalato gente del calibro di Nick Cave, Tom Waits, Miles Davis, U2, Metallica, David Bowie, Iggy Pop, Rolling Stones, Henry Rollins, Captain Beefheart e chi più ne ha più ne metta), un musicista frustrato. Nella fattispecie un batterista. Infatti durante la presentazione (rigorosamente in playback) del singolo Barrel Of A Gun a Top Of The Pops il fotografo olandese si ritrova dietro le pelli, assieme allo stesso Simenon nelle vesti di tastierista. Il risultato, agli occhi di chi conosce bene tutte le parti in causa, è particolare ma secondo Fletch “Anton l’ha presa veramente sul serio quell’apparizione in TV. Mi disse di non essere mai stato così felice negli ultimi 10 anni.

A fare le spese della situazione terrificante venutasi a creare durante le sessioni di registrazione dell’album è però proprio Simenon, che, secondo alcune indiscrezioni, dopo aver terminato il lavoro era totalmente esaurito. Andy afferma che finì per soffrire di una particolare patologia, chiaramente inventata sul momento, chiamata “Post Album Depression”. Il buon Tim infatti non lavorerà mai più coi tre (nonostante ebbe a dire che “quell’anno fu uno dei migliori della mia vita”) che già dal successivo “Exciter” del 2001 si rivolgeranno a Mark Bell, produttore di lunga data di Björk.

I brani che si snodano per tutto l’album sono una vera discesa nell’oscurità, le liriche si fanno più cupe ed introspettive, il look della band verte verso un freddo contrasto tra glam e goth con tanto di smalto e trucco pesante, un look simile a quello già utilizzato ma mostrato in modo completamente diverso. In molti comunque “accusano” Martin di aver scritto i brani cercando di immaginare cosa stesse succedendo nella testa di Dave ma a smentire suddette dicerie è proprio lo stesso Gore: “Non è proprio così che sono andate le cose anche se di certo, suonando assieme per tanti anni e crescendo assieme, ci sono stati molti punti d’incontro. Dave ha interpretato queste canzoni in modo molto passionale perché, forse, ha cercato di capire cosa frullasse nella mia testa, allo stesso modo in cui ho cercato di capire io stesso cosa passasse nella sua. Tutto qui.

Al contempo la prova vocale di Gahan si fa tanto intensa e diversa da prima anche grazie alla presenza in studio della vocal coach Evelyn Halus: “Lavorare con una vocal coach, cosa che non avevo mai fatto prima, mi ha aiutato molto ad espandere la mia estensione e lavorare meglio sulle demo che Martin mi aveva mandato, non solo imitando ciò che faceva lui, ma interpretandole a mio modo.” Infatti è proprio il caso di dirlo: ad oggi la passione vocale che si sente su “Ultra” è tra le più intense nella discografia dei DM.

Il 3 febbraio del 1997 esce così il singolo apripista all’album (che invece irromperà nei negozi il 14 aprile) ossia Barrel Of A Gun che include Painkiller e diversi remix ad opera di One Inch Punch, Underworld e Plastikman. Ad essere accantonato è invece il remix della b-side che porta la firma di DJ Shadow (vedrà la luce solo sulla raccolta “Remixes 81-04”). Pur ritenendolo un ottimo lavoro Gore sostiene che il mago del cut-up abbia usato troppi sample sul brano rendendolo poco funzionale

Con questo album la band inglese stuzzica il proprio pubblico ad aprirsi a nuovi suoni a cui non sono abituati tra ritmi prettamente hip hop e inflazioni industrial nella sua accezione più gotica ed oscura. Una sfida difficile per una fanbase adagiata su incursioni di diverso acchito, pur sempre vicine alla piega che sta prendendo il gruppo ma che viene accolta con vero piacere da un pubblico che non ha ancora assaggiato la chiusura mentale che sarebbe occorsa nel nuovo Millennio. L’album infatti si piazza subito tra i primi posti delle classifiche raggiungendo in breve tempo vette che forse non ci si aspettava per un lavoro così diverso, particolare ed intimo.

Brani come Useless (accarezzati dalla presenza di ben due batterie a dar scossoni al ritmo) con la sua vena “punk” (che Gahan ha più volte sostenuto di aver portato con la forza all’interno del progetto), cattiva e deliberatamente sbeffeggiante danno un tocco inusitato a ciò che esprimono i DM, che finora si sono destreggiati in bilico tra sensualità seppur cupa, velluto grigio e visioni mistiche di un cemento in rapida espansione. L’aggressione tutt’altro che silenziosa viene veicolata dalla frase “All your stupid ideas / You’ve got your head in the clouds / You should see how it feels / With your feet on the ground” e il tono beffardo di Gahan danno la misura di quanto detto prima ponendo le nuove composizioni sotto una luce nera ed infestante.

L’evoluzione del suono blues a cui abbiamo assistito sul precedente “Songs Of Faith And Devotion” si tramuta in un pop ammantato di malinconiche intrusioni elettrostatiche su The Jazz Thieves che si immerge dritta negli anni ’90 in cui è stata concepita mentre la tracotanza di It’s No Good fa pensare ad un irritato Elvis post-mortem che cala i pantaloni davanti ad una donna difficile da conquistare. Home è invece foriera delle parole di Gahan quando intendeva questo album come “hip-hoppish” e fortemente industrial, disturbata com’è da ritmo e distorsioni sintetiche oltranziste e disturbanti come mai prima d’ora.

Ultra” si attesta al tempo stesso come canto del cigno e mito della fenice di una band che si è trasformata, un inno al cambiamento e all’inversione di rotta di una condizione umana che ha fatto del degrado e dell’oscurità un marchio di fabbrica ineguagliabile nel mondo del pop e del mainstream a tutto tondo. Risorgere porta con sé il germe della diversificazione in senso più che stretto e guiderà i Depeche Mode fino al nuovo “Spirit” lasciando in scia una serie di ottimi dischi, benché privi di un’anima che è morta sullo zerbino del disco che oggi compie vent’anni, ma che ha instaurato una serenità che porta Gore e soci a non stare mai fermi, reinventandosi a modo loro senza snaturarsi, a carezzare la plastica senza indossarla mai, calcando palchi tirati su in mezzo agli stadi evitando a piè pari l’incarnazione da rockstar “ingiallite” e tronfie come gli U2, come in una seconda giovinezza scevra dell’incoscienza propria di quegli anni difficili.

Ecco perché questo disco è importante. Ecco perché ne parliamo ancora e lo celebriamo come se fosse il primo disco di una band che ha ancora cose da dire (in un’epoca di slogan inutili e hype tanto potente da incoronare realtà futili senza alcuna buona ragione). Fino a prova contraria.

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