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Oxbow – Thin Black Duke

2017 - Hydra Head Records
blues / experimental / post hardcore

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Tracklist

1. Cold & Well-Lit Place
2. Ecce Homo
3. A Gentleman's Gentleman
4. Letter Of Note
5. Host
6. The Upper
7. Other People
8. The Finished Line


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Quanto adoro i grandi dimenticati. Perché? Perché di norma (non sempre, badate bene) le mode premiano il valore dell’inutile sacrificando la bellezza di queste figure forzatamente evanescenti. Ma questa non è una lezione di filosofia spiccia quindi passiamo ai fatti. Tornano, a ben due lustri di distanza dallo splendido, infinito e sin troppo, per l’appunto, dimenticato “The Narcotic Story”, gli Oxbow. L’anomala creatura di quel marcantonio di Eugene S. Robinson rimette il becco fuori dalla tana giusto per piazzare un altro pezzo da novanta nella sua già ben nutrita discografia (“Serenade In Red” dovrebbe essere materia di studio per chiunque volesse intraprendere il tortuoso cammino della musica altra). Perché questo è “Thin Black Duke”.

Di recente Robinson si è cimentato in una sequela notevole di collaborazioni (Xiu Xiu, Zu e ultimi ma non meno interessanti Buñuel) e la cosa sembra avergli notevolmente giovato. Non che ce ne fosse bisogno poiché la natura vocale del nostro caro ex pugile è sempre stata stilisticamente e liricamente a dir poco deliziosa, in contrapposizione alla follia del proprio muoversi animale tra strumenti ed arrangiamenti, e qui si riconferma essere l’uomo giusto apparentemente nel luogo “sbagliato”. Un bluesman malato e marcio fino al midollo immerso di prepotenza in una tempesta elettrica senza fine. Questo sono, e sempre saranno, gli Oxbow: inclassificabili, impossibili, devastanti, immensi. Strani.

I cambiamenti tra un album e l’altro della band statunitense sono tanto impercettibili quanto imponenti e capaci di spostare l’asticella sempre più in alto cambiando prospettiva di volta in volta donandoci un debilitante piano sequenza di una storia altrettanto distorta. Accade nuovamente qui, tra le otto tracce dell’album che fluisce candido e delicato tra le nostre orecchie ferite. Ferite proprio da loro, e chi, se no? Il singolo apripista, e opener, Cold & Well-Lit Place stordisce sin da subito sbattendosene di creare un trait d’union con il precedente lavoro: parte un fischiettio e continua con una botta allucinante di alt-songwriting d’alta scuola infarcito di stoccate di chitarra alternative, nevrotiche più che muscolari, melodiche oltre misura e sorrette da arrangiamenti per archi e fiati di pura, purissima classe esplosiva. Classe che tende a riverberarsi sulla notturna e caveiana Ecce Homo, gonfia di latente amarezza che rimpinza il cuore di splendore crepuscolare.

D’altra natura è la movimentata A Gentleman’s Gentleman con Eugene a dibattersi in folies vocali su un tappeto alt-rock fulmineo e scintillante più Dinosaur Jr. di quanto si potrebbe credere, mentre Letter Of Note è una badilata sulle gengive, fustigata da chitarre immense, che a voler coniare l’ennesimo genere potremmo definirla post-bluescore, dal movimento assassino e felpato solo nell’intenzione. Di tensioni elettrificate e sospensioni spaziali è ammantata Host che colpisce dritta ai tendini come un pezzo “punk” marziano. Sempre dalle parti del King Ink, con aggiunta di waitsianismo spinto, è The Upper, spuria ballata sperduta nelle nebbie di una spirale di dolore e pazzia, incoronata nuovamente da arrangiamenti classici iperuranici.

L’intro western/morriconiana di Other People dona lo scettro al miglior brano dell’intero lavoro, splendidamente orchestrato e misurato tra seta e filo spinato emotivo, un vero e proprio diamante su una montagna d’oro lucente, tra enormi chitarre semi-acustiche baluginanti, esplosioni di rumore e noise-rock ottundente. Alla strascicata e lacrimevolmente epica The Finished Line è affidata la chiusura di un lavoro senza pace in un crescendo di svolazzi vocali tra bellezza incorporea e grida ferine che, a tratti Screamin’ Jay Hawkins e molto più spesso Tom Waits in botta di anfetamine, ci porta verso la distruzione e il silenzio.

Giusto il tempo di riprenderci e possiamo tornare ad ascoltarlo da capo questo “Thin Black Duke”. Nessun esercizio di stile, niente cambiamenti a tutto spiano, bensì una lezione (l’ennesima) di ciò che si dovrebbe essere sempre al di fuori dei grandi canali, ossia un encomiabile agglomerato di doti artistiche e capacità espressiva senza confini. A rimaner sé stessi se ne guadagna sempre in bellezza. Quella stessa bellezza da tempo dimenticata.

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