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“Get Some” degli Snot: vivi veloce, muori giovane e lascia il segno

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Quanti dischi “dimenticati” avete nella vostra collezione? Ovviamente sempre ammesso che ne abbiate una e non vi sollazziate solo con Spotify e iTunes Music. Tutto dipende, presumibilmente, dalla vostra età ma anche dalla vostra curiosità (e in fin dei conti anche dal vostro conto in banca, ma fingiamo di ignorare questo dettaglio una volta tanto). Potreste averne uno, dieci, cinquanta o anche di più. Ve lo siete mai chiesto? Secondo me sì. Perlomeno a me è capitato, anche più di una volta. Ogni tanto mi piazzo lì e spulcio e mi chiedo “perché ho comprato questo album?” e ancora “chi cazzo se lo ricorda questo qui?” oltre a “ma davvero mi piaceva questa merda?”. Tutte domande lecite, per noi nerd affamati di musica dalle mani bucate. Tanti dischi e pochissimi vestiti (ma parecchie t-shirt prese ai concerti) ma anche un’infornata di ricordi più o meno belli. Da qui la nostalgia canaglia che nei miei articoli compare ogni due per tre e mai in accezione positiva. Ma torniamo al quesito iniziale e soffermiamoci solo sulla chiave dell’articolo: i dischi dimenticati.

Va detto, si parla di dimenticanze di massa perché, nel piccolo, anche i dischi di DJ Muggs o dei Crass (sono i primo sui quali mi è caduto l’occhio voltandomi verso alcuni cd, tutto qua) sono album di per sé importanti che non avranno cambiato per forza di cose il mondo della musica come altri proposti in questo spazio “anniversaristico” ma che hanno spostato il baricentro dei generi di quel tanto che basta per gettare altre basi in questo triste mondo malato nel quale agiscono sempre più artisti (troppi, per i miei gusti, ma tant’è). Una di queste maledette dimenticanze di massa sono gli Snot e, nella fattispecie, quanto riguarda il primo ed unico disco della band californiana intitolato “Get Some”.

Primo ed ultimo, purtroppo, poiché il fato colpisce sempre dove non dovrebbe e così nel 1998, a meno di un anno dal debutto su larga scala, il cantante Lynn Strait perde la vita, assieme all’inseparabile cane Dobbs, mascotte del gruppo che campeggia sulla cover del disco, in un incidente stradale. Va così sfumando e cadendo nel nulla un’ottima promessa nel campo della musica heavy di nuova fattura, dopo aver spiegato le corde vocali a mo’ di ali cromate su un mondo che di voci buone era carente già nella golden age ossia il nu-metal per lo più come ben saprete, caratterizzato da epigoni di gente che a sua volta era copia di qualcos’altro o, nella migliore delle ipotesi, così originale da non capire le proprie reali potenzialità tanto da avviarsi nella landa affollata dell’autoindulgenza.

Strait, invece, aveva quel qualcosa in più che agli altri mancava. Così come gli Snot di per sé attingevano da ben altri lidi ciò che andrà a formare il loro sound. Tra hardcore punk, rockabilly, stoner sudicio, southern sgomenti vocali e sguaiate lerciate r’n’r quello che si potrebbe definire il punto di rottura di un genere votato e prostrato in malo modo al peggiore hip hop viene dimenticato in tempo zero dal 1998 in poi, salvo tornare rimaneggiato ma senza anima, com’è giusto che sia, in tempi ben più recenti tramite una reunion di cui non si sentiva affatto il bisogno.

A completare la formazione troviamo gente votata a divenire una serie di promesse del nuovo metallo più o meno infrante come il chitarrista e membro fondatore della band assieme a Strait Mike Doling, sei corde in una delle prime formazioni dei fallaci Soulfly, il secondo chitarrista Sonny Mayo, che finirà ad ingrassare le fila, anche se temporaneamente, degli Hed P.E. e degli Amen di Casey Chaos, stesso gruppo in cui comparirà il bassista John “Tumor” Fahnestock e, infine, Jamie Miller, attuale batterista degli …And You Will Know Us By The Trail Of Dead.

Poco fa ho tentato di delineare il sound della band mediante il mio giudizio ma è giusto dare un tocco più approfondito attraverso le parole del perno centrale della band, ossia Strait che ebbe a definire così il sound del gruppo:

Ci piace chiamarlo “lounge-core” perché è al tempo stesso lounge e hardcore. Penso che si possa piazzare nel calderone del metal new school. Ci sono parecchie band in giro al momento e vengono metà dalla East Coast e metà dalla West Coast, così penso tu ci possa considerare una “Ameri-core” band. Sai cosa intendo? Perché noi non abbiamo uno stile ascrivibile a questa o quella costa. Suoniamo un po’ punk rock, un po’ metal e un po’ funky e così finiamo per non avere una nozione precostruita di come dovrebbero suonare gli Snot. Ci limitiamo a scrivere roba.

E a proposito dello scrivere canzoni è invece Doling a svelare in quali condizioni vennero alla luce i brani del disco in una recente intervista:

Cazzo, era davvero divertente. Scrivevamo tutto nella nostra sala prove che era proprio accanto ad uno strip club. Vivevamo tutti assieme in un appartamento su quella strada. Componevamo, prendevamo le spogliarelliste, le portavamo a casa nostra, facevamo festa e ce le scopavamo e tutto finiva nei brani ed è così che venuto fuori Get Some”. Puoi ascoltare quel disco e sentire tutto questo letteralmente – spogliarelliste, rock’n’roll e droghe. Era folle. Era divertente.

Così il 27 maggio 1997 il disco arriva sugli scaffali dei negozi, pronto ad entrare nella leggenda suo malgrado ma per la fortuna di tutti coloro che ricordano. A rendere possibile l’uscita non è una minor, nessuna autoproduzione, niente DIY, bensì una major come la Geffen, che aveva capito come girava il mondo nei nineties mettendo sotto contratto gente come Sonic Youth, Beck, Pitchshifter, Bloodhound Gang, White Zombie e via dicendo: “Volevamo, come qualsiasi altra band, che la nostra musica arrivasse al più alto numero di persone” – chiosa Strait – “non suoniamo per chissà quale grande causa. Adoriamo suonare e adoro che questa musica mostri i miei pensieri. Lo facciamo per vivere come chiunque altro. Non siamo mai stati una band tipo ‘non crediamo nelle vendite, non crediamo in tutte queste cose’. Ci sono molte band che credono molto nell’underground e vogliono rimanerci, ma noi vogliamo semplicemente avere un tetto sotto il quale vivere e avere i soldi per mangiare. Alla fine nessuno negli Snot vuole essere una cazzo di rockstar da grande arena e tutte queste stronzate eccessive. Vogliamo solo mangiare e poterci prendere cura di chi amiamo.

Onesto fino in fondo, Lynn, tanto da cozzare con la maggior parte delle rockstar alternative che cercano di dare ad un contratto su major una scusante di tipo artistico oppure un connotato politico che sa di cazzata lontano un miglio, un lato di lui che va a cozzare con il suo essere against the grain, la rozzezza delle liriche, lo sporco di una vita vissuta tra galera, droga e palchi. Già, perché il cantante californiano non si è fatto mancare nulla: “Sono stato dentro diverse volte. Il periodo più lungo è stato un anno. Alcune nostre canzoni vengono proprio dalla galera. Tutti i pezzi parlano di miei esperienze personali e questa ne fa parte, senza dubbio. Canzoni come Stoopid sono state scritte in prigione, in momenti in cui ero particolarmente fottuto.

Proprio il funk anfetaminico di Stoopid offre un punto di vista notevole su alcuni pensieri derivati dal punk (ma anche dalla società perbenista in genere), nel bene e nel male, in opposizione ad una chiusura mentale che è stata prima combattuta da quel movimento e poi ne è diventata bandiera della propria ipocrisia: “If you’d open your eyes / Then maybe you can see / A figment of closed minds / You know education is the key / Hate sparks will create fire / Why can’t you let them be? / I see your stoopid blind / I know you cannot see”.

Dal punto di vista puramente tecnico il disco è una bomba sonora, sin dalla produzione affidata a Todd Ray, aka T-Ray, che dà ad un album così vario una continuità e una chiarezza più uniche che rare. Ray ha nel suo curriculum di tutto e di più: remix per Mick Jagger, produzioni che vanno dagli Helmet (sul loro micidiale “Betty”) a Santana, passando per Hed(P.E.), Non Phixion, Cypress Hill e Ice-T. Seppur alcuni di essi si siano rivolti a lui dopo il 1997 la scelta degli Snot è chiara: ottenere il massimo dell’espressione da una produzione curata da una persona aperta mentalmente al 100%. Risultato ottenuto in pieno. A dar manforte ai nostri troviamo anche Dave Fortman alla chitarra su Deadfall. Fortman è più conosciuto per le sue produzioni che vedono all’attivo EyeHateGod, Soilent Green, Otep, Boysetsfire, Mudvayne e Slipknot che per la sua presenza alla sei corde negli Ugly Kid Joe, ma di certo l’apporto che dà anch’egli è di notevole caratura. Come notevole è anche la presenza di Theo Kogan, cantante delle stralunate riot grrrl Lunachicks (altre grandi dimenticate) a spazzare via tutti i dubbi anomali sul sessismo imperante marcato dall’odio per l’altro sesso dei cinque californiani.

Il dubbio, ai più, è sorto sulla finale, distruttiva cavalcata ultra metal My Balls, zeppa di probabili riferimenti al lato più bieco del sesso come “My balls / Your chin / I wanna put ’em on your chin” o “She’s a fucking ho / And we know how it goes / You come back and it / Once or twice who knows / I know you’re all the same” tanto che il testo non figura nemmeno nel booklet. A spiegare la situazione è nuovamente Strait: “Un sacco di persone si sono fatte un’idea sbagliata di quel pezzo tanto che il testo non è stato nemmeno stampato nel libretto. Ma “My balls, your chin” non si riferisce alle donne. La canzone parla delle altre band che vengono a vederti e dicono ‘Ragazzi, fate schifo!’, poi tornano dai loro colleghi e parlano male di te dicendo ‘Questi ragazzi sono una merda! Li spazziamo via!’. Parla della competizione tra band e di come sia fottutamente noioso e di come invece dovremmo essere – tutte le band dovrebbero aiutarsi a vicenda il più possibile per farcela. Ci sono un milione di band là fuori e c’è spazio per tutti, per poter fare ciò in cui si crede. C’è solo una parte dedicata alle donne, nella fattispecie alle fidanzate di alcuni membri del gruppo, ma non è che un piccolo commento.

Insomma la cattiva abitudine del pubblico (e non solo) di non leggere tra le righe è qualcosa che arriva da lontano e che è sbocciata fiorendo senza freni in questi anni di social media usati in malo modo e di politically correct stantio senza né arte né parte, foriero di un’ignoranza mai vista, ma questo è un altro discorso che avrebbe bisogno di ben più di un approfondimento in altra sede per essere eviscerato a dovere quindi torniamo a noi.

L’album si apre con la strabordante Snot, una dichiarazione d’intenti sin dall’apertura in cui qualcuno chiede “Say some for the record, tell the people what you feel!” e la risposta che non si fa attendere è “Fuck the record! And fuck the people!” (l’uomo che sciorina questa perla di saggezza è presente nel video del brano, ed è un figurino d’altri tempi) seguita da una legnata nu-metal piazzata dritta sugli incisivi ed è un atto di autocelebrazione che detemina il proprio posto hic et nunc per rompere il culo a tutti gli altri e il testo detta la linea: “SNOT / We’re fittin’ to take your town / You know we wear the crown / Just go to mess around / Leave your daughters and your sister with me / Down / Down for the fattest sound / We’re coming to your town / Breaking some ground / Someone’s got to do it”.

Le chitarre sono puro cemento, il basso gratta il viso, il rullante è tutto punta e risonante infernale e la voce di Strait è rapace e incancrenita e c’è tutto un inferno da attraversare per giungere al dunque della faccenda. Il lavoro è pregno più che mai di punk a tutto andare (è bene ricordare Lynn è stato bassista in una band hardcore prima di approdare su questi lidi) e per quanto lugubre sia sentire lo schianto d’auto in chiusura a Joy Ride non possiamo definirlo uno dei migliori momenti dell’intero lotto: infame, veloce, sleazy come nessuna band glam rock potrebbe mai sognarsi di essere dal primo disco dei New York Dolls in poi, infarcita com’è di delirio metal al fulmicotone e cori da far invidia ai migliori NOFX con tanto di testo/minaccia a coronare il tutto.

Giusto spendere altre parole nei confronti dell’affezione che i nostri nutrono per l’hardcore come praticamente nessuna band nu-metal ha mai fatto, né mai farà, dato il ritorno in auge di questo futile genere. Dal cappello tiriamo fuori Mr. Brett, brano ultra veloce nel quale spicca il duetto Strait/Kogan e che, di fatto, prende di mira il baraccone punk/hc che in quegli anni stava impennando vendite acquisendo una visibilità televisiva notevole come mai prima d’ora. Come sempre le liriche non la mandano a dire a nessuno e vanno sottolineate: “ So you adopt a punk rock life / A leather jacket, hair with spikes / And join a band / Cause you must have a say / And though you helped out with it that time / There’s those of us who keep on / Trying to make a living and not sound like Green Day / Trade rags say you’re making it, now you’re old / You don’t give a shit / Subconsciously fullfilled prophecy / You’ve become your own nemesis” e ancora “Mr. Brett we won’t pay that fee to keep you livin’ in luxury / Some say genius, some say mistake / But you’ve become what you used to hate.

l brano si conclude con un accenno ad una “corporazione punk” in divenire, nata dal fatto che negli anni ’90 il genere è ormai sdoganato ai più ed accettato. La cosa che più mi ha colpito è che questo pensiero anticipa di un anno “The Shape Of Punk To Come” dei Refused, album che profetizzava l’avvento di una rivoluzione di genere che di fatto non è mai avvenuta, anzi, che ha visto realtà come Green Day, Blink-182, Rancid, Offspring e AFI diventare ciò per cui erano nati, citando un amico e collega, una sorta di “vuoto generazionale” e far percorrere il viale del tramonto dell’onestà intellettuale al proprio genere d’appartenenza (almeno sulla carta) ma che, in compenso, li ha catapultati sui grandi palchi e verso la massificazione più becera e ignobile, trasformando una volta per tutte punk e hardcore in merda plastificata per palati ignoranti tout court, che vi piaccia oppure no.

Il cantante, interrogato sulla possibilità che il Signor Brett della canzone sia mr. Gurewitz, capoccia dell’etichetta Epitaph, e su una qualche ripicca da parte delle band del roster della label californiana casa delle band punk/hc più in voga ancora oggi, Lynn si smarca così: “Non che io sappia. Sono in buoni rapporti con alcune band della Epitaph e conosco Brett Gurewitz (anche se non ho avuto modo di parlare con lui ultimamente). Ho parlato con alcuni di loro del pezzo prima che l’album uscisse, ne ho parlato anche coi NOFX. È una canzone punk ed ha un testo che parla schiettamente, il punk deve farlo, lui era solo un candidato ed era lì pronto per me. Tutto qui.

Il disco continua ad impennarsi tra le distrazioni psicotrope ed allucinogene di 313, più vicina agli Hawkwind che ai Korn, denotando una sicura predisposizione ad un certo tipo di sperimentazione che, purtroppo, non potrà essere approfondita, passando per una title track figlia del più recente crossover infame, così come le palate elettriche e controtempo di I Jus’ Lie, forse uno dei momenti più ferali dell’album e che prende in prestito un po’ delle atmosfere proprie degli amici Deftones mentre ad essere tirati in ballo in Unplugged (tutt’altro che priva di elettricità, credetemi) sono i deliri mortali di Maynard James Keenan e soci senza, ovviamente, risultare un copia incolla come invece accade altrove e si avvia verso la fine con il lounge, mica a caso, di Get Some Keez che anticipa la già citata My Balls.

A disco concluso, mentre il silenzio torna a farsi pesante nella stanza, il retrogusto amaro in fondo alla gola si fa sentire poiché la tragedia della fine di Strait tronca qualcosa. Punto. La sua è una morte senza lascito né strascichi, soprattutto in questi anni in cui ad ogni piè sospinto sulle varie bacheche virtuali compaiono epitaffi a questo e quell’altro personaggio del rock scoparsi prematuramente. L’unica commemorazione tangibile arriverà nel 2000 con la compilation “Strait Up” nella quale sfilano alcuni delle voci affermate in quegli anni del movimento nu tra cui Fred Durst, Corey Taylor, Lajon Witherspoon dei Sevendust, Dez Fafara, Jonathan Davis, Brandon Boyd, Mark McGrath voce dei terrificanti Sugar Ray, M.C.U.D. degli Hed (P.E.) e Max Cavalera, accompagnati dai restanti Snot su una sfilza di brani dimenticabili anziché no. Lo stesso Doling, che in fondo ha voluto e prodotto l’album, si pentirà dell’operazione definendola persino meramente commerciale diventata carne per le etichette discografiche, qualcosa che, pur essendo in onore di Lynn, ha perso per strada il suo significato originario.

Insomma, dopo tante parole, l’unica verità è che “Get Some” è qualcosa da ritrovare strada facendo, qual che sia il genere musicale che più apprezzate e/o suonate. Un lavoro onesto e pregno di significati che vanno ben oltre le spogliarelliste e la droga, oltre gli anni di galera e le macchine accartocciate sul lato della strada. È un flusso di coscienza di una decade di rinascita e perdita verso l’oblio degli anni Zero (lungi da me citare l’inutile Brondi) e andrebbe riscoperto passo passo. Magari ricomprato, sempre che riusciate a trovarlo, ma sono certo che l’online vi verrà in aiuto. Di sicuro c’è solo che va suonato, e anche forte, ogni qual volta qualcuno vi darà modo di farvi incazzare.

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