Diamanda Galas non poteva scegliere location migliore. La Lavanderia a Vapore di Collegno era la lavanderia del manicomio. Tutto il Flowers Festival di quest’anno, infatti, basa il suo programma (nella fattispecie questo concerto, quello degli Einsturzende Neubauten e quello di Peaches) sul tema della follia, di cosa è ritenuto diverso e cosa no, su chi definisce questi confini sin troppo labili, su come, a quasi 40 anni dalla Legge Basaglia che riformò l’approccio psichiatrico in Italia col superamento della logica manicomiale.
Il luogo si affolla ben presto e il pubblico è più eterogeneo che mai, l’attesa tanta. Perché Diamanda Galas è un’istituzione. Regina dell’avanguardia vocale si è distinta negli anni per le sue performance maniacali e “folli”, giusto per restare in tema, circondata da microfoni, piena di grida e devastazione emotiva. Oggi il palco è scarno, un solo pianoforte a coda a dominarlo e poi lei, nel suo vestito nero lungo. Entra, fissa l’audience, che impazzisce letteralmente, e poi si siede. Un attimo solo e attacca la performance, le luci si susseguono, sottolineano la silhouette dell’artista greca e accrescono il pathos che emana la sua voce.
Gorgheggi e potenza vocale ad altissimo regime, brani tradizionali che tuonano in sfavillanti nuove vesti avantgarde, anatemi sibilati nella nostra lingua (dedicati a quegli “stronzi che struttano le donne” in alcune fabbriche in Messico, e in giro per il mondo in generale, che vengono “maledetti” e che a cui “le donne della California del sud “pensano, mentre camminano di notte”), blues infinito e stentoree cannonate d’ugola, tra O Death, La Llorona, Jacques Brel e una sentita performance solo vocale chiamata Morphine, il tutto si snoda nell’eccitamento generale donandoci la diapositiva di un’artista che non accenna a voler cedere il passo e che continua a sperimentare, seppur avendo raggiunto una sua dimensione ben delineata che non lascia più nulla all’immaginazione, ma che comunque dell’emozione fa la sua veste definitiva.
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