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“Ok Computer”: l’autopsia della paranoia

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Pochi album nella storia della musica moderna, da quando ha assunto il doppio ruolo di forma d’arte e prodotto di consumo di massa, hanno saputo descrivere con piena fedeltà lo spirito degli anni. Ancora meno sono riusciti a segnare il passaggio fra due epoche, raccontando il vorticare di emozioni e sentimenti contrastanti che ogni cambiamento radicale porta inevitabilmente con sé.  

Siamo nel 1997, alle soglie del 2000, del Millennium Bug e dell’iperdiffusione di Internet, l’ansia tecnologica si fa sempre più dilagante e sono proprio i Radiohead a cogliere la sfida e a farsi cantori di una rivoluzione che si apprestava a sommergere l’individuo con tutta la sua implacabile ma microscopica forza. Non quella che ci si era immaginati, certo, delle macchine volanti, della fine del mondo e delle distanze azzerate, ma quella dei personal computer, dei dispositivi elettronici tascabili, dei codici binari all’interno dei quali di lì a poco tutti avrebbero cominciato a riversare le loro intere esistenze.

Non fu però subito semplice prevedere una potenza di fuoco tale in un’opera che piombò senza freni e con tutta la propria carica artistica ed immaginifica in un mondo, quello musicale, che sembrava andare al contrario di quanto succedeva fuori, professando l’evoluzione ma rimanendo nei fatti sempre più fermo sui propri incerti passi: i Radiohead di “Pablo Honey” prima e “The Bends” poi erano stati inseriti a voce unanime tra gli esponenti principali del brit-pop, un vestito sicuramente prestigioso, ma che li metteva sullo stesso piano di band innominabili e che a Thom Yorke e compagni stava già stretto e sgualcito. D’altronde già i primi due album includevano un bel po’ di micidiali cartucce divenute fin da subito simbolo degli anni ‘90 e non solo, ma non aveva ancora definito a pieno la propria identità musicale, che restava in bilico tra un approccio sperimentale tutto da forgiare e un pop introverso e malinconico che aveva già fin troppi precursori nella tradizione britannica.  

Nell’animo dei Radiohead la voglia vitale di rendersi irripetibili andava a fondersi da un lato con la sensibile consapevolezza di vivere in un’epoca di cambiamento ineluttabile, dall’altro con con l’intuizione che per descrivere il cambiamento era necessario per prima cosa esserne tra gli artefici. È in questo magico incrocio di intenti che va inteso lo spirito rivoluzionario di “Ok Computer“, vero e proprio manifesto di un linguaggio nuovo in una dimensione musicale che si faceva però sempre più stantia. La band di Oxford assume la responsabilità di raccontare il cambiamento alle soglie del 2000, disegnando un fedele affresco di insicurezza e alienazione, del collettivo senso di impotenza di fronte al diffondersi di macchine sempre più piccole e per questo subdole ed incontrollabili.

E non è certo un caso che a dare il tempo a quella che è la canzone simbolo dell’album – prodotto da Nigel Goldrich  – siano proprio quattro gelidi battiti computerizzati. Paranoid Android è il singolo di lancio, e già questo di per sé è un fatto rivoluzionario: un brano di 6 minuti che si sviluppa come una sorta di suite progressive suddivisa in tre differenti momenti, accompagnata da uno stupendo video animato di stampo ultra-surreale che MTV, all’epoca dei fatti l’unica fonte di diffusione delle clip musicali, non passerà neanche una volta. In questi sei minuti si dipanano tutte le anime dei Radiohead: quella più sperimentale (lo stesso Yorke in un’intervista di presentazione al disco disse di aver studiato molto Morricone e i Can in fase di composizione), quella più psichedelica e quella più pop, dimostrando di aver non tanto chiuso con le sonorità che avevano caratterizzato i lavori precedenti, quanto piuttosto di saperle padroneggiare perfettamente, distruggendole e destrutturandole a piacimento. Paranoid Android è un pezzo tanto complesso quanto immediato, spietato nel suo riuscire ad emozionare dal primo all’ultimo dei suoi minuti, sia dal punto di vista delle liriche (la voce di Yorke demolisce l’intera generazione degli anni 80, fatta di gucci little piggy e giovani yuppies coicainomani ed esagitati) che da quello delle melodie, in grado di mutare in corso d’opera con disarmante naturalezza, passando dagli accordi evanescenti della prima parte ai riff cosmici e incisivi di Greenwood, che nella parte centrale e finale chiudono un crescendo di tristezza e rovine che alla fine dell’ascolto non può che lasciare vuoti.

Prima ancora però, ad aprire il disco e a segnare la strada c’è Airbag, brano all’apparenza semplice, ma che mette in tavola fin da subito gran parte delle carte vincenti giocate lungo lo scorrere di “Ok Computer, su tutte la perizia e l’attenzione che i Radiohead hanno (da sempre) riposto nella cura degli arrangiamenti. Thom Yorke vola leggero con il suo tono cantilenante, già ad un passo dal diventare leggenda, narrando la sua paura per le automobili al di sopra di un mix bruciante in cui chitarre, basso e batteria giocano a sovrapporsi ed a fondersi di continuo con un violoncello. Airbag è in fondo un primo passo del superamento del brit-pop, una sua reincarnazione paranoica e malinconica che si ripeterà più volte nel corso del disco.

Proprio come nel tragico dream pop di Let Down e soprattutto in Electioneering, il brano più diretto e violento del disco, ispirato al saggio di Eric Hobsawm “The Age Of Extremes“, una storia breve del XX secolo che, in chiave marxista, mette in luce il legame indissolubile tra politica e denaro. È un rock crudo ma stratificato, che si scaglia contro le false promesse dei politici e in cui i Radiohead sembrano un gruppo armato che inneggia ad un nuovo Dio sul corpo senza vita del brit-pop e di tutti i suoi derivati.

Sono però brani come Exit Music (For A Film) e Karma Police a dimostrare l’immensa eterogeneità della band di Oxford. Entrambi tra le vette artistiche della loro intera produzione, sono il primo un toccante e funereo requiem su cui si dipana tutta la poetica toccante di Yorke e la sua espressività vocale fuori dal comune (sing us a song / a song to keep us warm), l’altra una ballata pienamente beatlesiana diventata uno dei tanti simboli della produzione dei Radiohead. È una melodia orecchiabilissima dall’inizio alla fine, su cui Yorke vomita sopra tutta la sua patologica depressione e il suo lampante disprezzo per una collettività-automa in perenne allarme, che si faceva sempre più piccola al cospetto delle macchine (Karma police / I’ve given all I can / It’s not enough / but we’re still on the payroll).

Ed è sempre la malinconia a punteggiare quasi ogni secondo di “Ok Computer“: Climbing Up The Walls è un capolavoro assoluto di disperazione che, nella sua forma puramente rock, lascia già intravedere la direzione glaciale e claustrofobica lungo la quale si dirigerà negli anni successivi il suono della band (I am the pick in the ice / Do not cry out or hit the alarm / You know we’re friends till we die). 

E se poi No Surprises appare stranamente positiva, con la sua soffice melodia da ninna-nanna post-moderna, è solo una cinica illusione: nei versi cantati da Thom Yorke emerge forte e chiara l’apatia per una società che ci disegna omologati fin dalla nascita, assorbiti da contesti che soffocano ogni ambizione o desiderio, lasciandoci a giocare con la chimera di una libertà che ci vuole impegnati a raggiungere obiettivi superficiali, noiosi e precostituiti (such a pretty house / and such a pretty garden).

Per chiudere l’opera i Radiohead scelgono di lasciare un messaggio, di regalare una sorta di possibile antidoto per il male di vivere che ci vede chiusi in uno spazio ristretto a fronteggiare la drammatica complessità di questo nuovo mondo tecnologicizzato. Slow down, rallentare i ritmi inutilmente frenetici della quotidianità: è questo il sunto fondamentale di The Tourist, brano scritto da Johnny Greenwood che sembra voler esorcizzare tutti gli incubi che hanno costellato gli altri brani. E così la voce di Thom Yorke, insieme agli altri strumenti, si arrampica con lentezza lungo i 5 minuti conclusivi dell’album, tracciando una dimensione dilatata, in perfetta simbiosi con il testo. 

Ok Computer” non è forse l’album migliore della discografia dei Radiohead, ma è sicuramente il più importante. Al suo interno si compie infatti una fusione tra testi e suoni con pochi precedenti, una vera e propria interazione tra musica e letteratura che è il risultato di una sensibilità artistica matura, solo fin qui abbozzata nei due dischi precedenti, e che diventerà la chiave dell’evoluzione futura nella band negli album successivi. Ma è soprattutto un album generazionale ed evocativo: le parole di Thom Yorke sono l’autopsia di una generazione malata, paranoica e scombussolata, divorata dalla solitudine e dal conformismo di pensieri e sentimenti, incagliata negli ingranaggi disperati di una società che della tecnologia ha preso gran parte degli aspetti più perversi.

Distanti dai toni caldi ed esasperati con cui il grunge qualche anno prima aveva cantato il male di vivere, quella dei Radiohead è una disperazione fredda e sottile, ma altrettanto autentica e che tra le pieghe di un’architettura sonora maniacale sembra individuare nella ricerca della perfezione e della bellezza un’unica via di fuga. A più di vent’anni di distanza dalla sua pubblicazione “Ok Computer” conserva ancora intatta tutta la sua potenza espressiva e, anzi, sembra aver anticipato molte delle assurdità che oggi affliggono il nostro vivere incastrato in uno schermo, piccolo o grande che sia. 

 

 

 
 

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