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The Punk Box

THE PUNK BOX #1: Cut, Spoilers, SDH, Cockroaches

The Punk Box

Inauguriamo questa rubrica con l’auspicio che naufragherà sonoramente a breve tra bottiglie rotte e scatarri negli occhi, come ogni buona punk band raccomanderebbe. Orsù, qui non si parlerà di punk fichetto con i tatuaggi giusti e le Vans, ma di roba sotterranea e “giusta”. Più che altro, scegliendo per un attimo la strada della seriosità, questa rubrichetta si rende necessaria per segnalare ai lettori di Impatto Sonoro alcune cosine pubblicate nei mesi scorsi e meritevoli di attenzione.

Cominciamo l’excursus parlando dell’ultimo lavoro dei Cut, storica formazione italiana (bolognese per la precisione) di punk e r’n’r deviato. “Second Skin“, sesto album in studio, celebra la carriera ventennale di una band che gronda attitudine e credibilità da tutti i pori: brani come l’iniziale Shot Dead rappresentano al meglio il sound del trio, ovvero un’assalto Soul Punk R’n’R all’arma bianca. L’album è intriso di selvaggia Black Music, una passione mai nascosta dal trio, passione che viene declinata anche in forme più soffuse e dark, come in Take It Back To The Start. I Cut suonano taglienti, secchi, oscuri, senza fronzoli. E lo fanno da vent’anni, meritandosi il rispetto di grandi e piccini: non sarà un caso che un certo Mike Watt (non c’è bisogno che vi dica chi è) presta il suo basso in Automatic Heart (Tacoma Will Travel). Se capitano dalle vostre parti e volete sudare un po’, andate a vederli.

Passiamo agli Spoilers, quattro giovinazzi da Londra (in realtà uno è italianissimo, il batterista Mario Daddabbo). “Anti Vibe“, esordio autoprodotto sulla lunga distanza, suona come se gli Strokes, invece di essere dei fighetti newyorkesi e suonare indie ripulito, fossero usciti dai sobborghi di Camden suonando lo-fi e punk. Ecco, la sensazione ascoltando gli Spoilers è proprio quella: fanno punk come lo farebbe un gruppo indie rock dei primi anni Duemila. E azzeccano subito il colpaccio in apertura: Try Try Try è veloce, violenta, ma con un ritornello a presa rapida che ti si stampa in testa ed una coda noise e acida inusuale. Il resto del programma viaggia sui binari precedentemente descritti; il meglio i nostri lo danno quando sembrano un treno gettato a velocità folle verso i precipizi del guitar sound più distorto (Unfun, No Pressure, il singolo Imminent Future). L’unica, piccolissima pecca è It’s A Lie, veramente troppo riconducibile al sound dei Nirvana, ma, ripetiamo, è un peccato veniale che non offusca minimamente la bontà di quest’esordio.

Chi l’esordio l’ha passato da un bel pezzo sono gli SDH, punk band nostrana che torna con l’ottimo “Rough Hunger“, per chi scrive forse il loro migliore lavoro. Anche qui, come per gli Spoilers, il buongiorno si vede dal mattino: Blackened Spoon, brano d’apertura, è un incrocio bestiale e incontrollato di Dictators e MC5, un’autentica dichiariazione d’intenti e uno dei migliori pezzi punk ascoltati negli ultimi anni. L’idea di suono degli SDH è certamente quella di coniugare il punk ’77 con suoni acidi e strutture psych, creando viziosismi a go go (ascoltare la filastrocca perversa Rookie Groupie) e un sound che, concettualmente, non conosce stasi e banalismi. “Rough Hunger” è un album che richiede tempo per entrare nei suoi gorghi impazziti di chitarre lancinanti, drumming forsennato e voci che si alternano, confondono e sovrastano creando una Babele dissennata. Quando l’avrete fatto, scoprirete un gruppo coraggioso che sa riutilizzare in maniera pertinente le idee della buona e vecchia punk music, il tutto riassunto e paradigmaticamente espresso in Object In The Mirror.

Chiudiamo il box segnalando l’album dei Cockroaches (“Rest In Pieces“), band romana dedita ad un classico Psychobilly accostabile, rimanendo in quei lidi, alle cose dei Bone Machine (il giro credo sia quello). Tutto ben fatto e ben suonato, con tanto di look alla tardi Misfits: per fan e zombie assortiti.

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