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Pietre miliari

“Rage Against The Machine”, una pallottola nella testa del sistema

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The revolution will not be right back after a message about a white tornado, white lightning or white people. You will not have to be worry about a dove in your bedroom, a tiger in your tank. The revolution will not go better with Coke. The revolution will not fight the germs that may cause bad breath. The revolution will put you in the driver’s seat. The revolution will not be televised. The revolution will be live.

Così Gil Scott-Heron, nel 1970, avvertiva il mondo che nessuna rivoluzione sarebbe passata per i canali convenzionali voluti dalla tremenda realtà di un mondo bianco, pulito e silenzioso ma che sarebbe stata rumorosa, viva, anzi, DAL VIVO. Forte del vento del cambiamento e di un pessimismo forzato a diventare ottimismo verso un domani senza catene per la sua gente, per la gente che di base si scopriva forte di una debolezza insinuata dall’alterità di governi e cecità e che diventava megafono di una voglia di ribadire la propria presenza.

La rivoluzione non solo è arrivata ma nel mentre è stata purtroppo resa contesto mediatico e spettacolarizzata contro la volontà di coloro che l’hanno messa in atto. La necessità di farsi nuovamente voce di una debolezza rinnovata e tornata in auge di nuovo spinta a forza nella mente di quanti non potevano nemmeno avvicinarsi ad un block di distanza dal palazzi del potere, radunandosi in circoli di auto gestione di un potere diverso da quello di cui sopra, sputando rime, spinnando dischi, incanalando l’odio e la frustrazione nell’arte povera in quanto tale, generando movimenti e stili imperituri, impermeabili e impossibili da erodere ma in continua evoluzione.

Questo evolversi delle cose, nel 1992, a 22 anni di distanza dalle parole del primo rapper della storia – che vi piaccia oppure no – ha portato un ragazzo di Venice Beach a sputare in un microfono il seguente avvertimento “One-sided stories for years and years and years. I’m inferior? Who’s inferior? Yea, we needs check the interior of the system who cares about only one culture, and that’s why: we gotta take the power back”.

I Rage Against The Machine si sono ritrovati comunque a tradire in qualche modo il messaggio di Scott-Heron passando attraverso i grossi canali di potere a sentir loro per arrivare al più alto numero di persone possibili. Tradito sì, ma non disatteso. La rivoluzione chiamata in causa da Zack de la Rocha, Tom Morello, Tim Commerford e Brad Wilk è qualcosa che trascende la lotta politica ed entra di prepotenza in un contesto che, grazie prima al punk, poi all’hip hop e infine al grunge, tornava ad essere voce generazionale di prominente disagio e importanza impossibile da ignorare: quello della musica, spogliata delle illusioni della Summer Of Love e infettata dal morso del reale di un mondo che non ha mostrava alcuna intenzione di prendere sul serio la voce contro dei movimenti giovanili.

Scardinare la sicurezza, sovvertire le regole dall’interno. Non l’avevano forse già fatto i Public Enemy passando per il setaccio della Def Jam e della Columbia pochi anni prima? E, sempre Chuck D e Flavor Flav, non avevano forse già gettato i semi – forti dell’aiuto degli Anthrax – di una siepe saltata a piè pari? Ai RATM non restava che far germogliare il tutto all’interno di un album di debutto che più di un semplice pugno di canzoni suonava, e suona ancora a venticinque anni dalla sua uscita, come una dichiarazione di guerra a tutto  ciò che era ed è tutt’ora statico. “Rage Against The Machine” se suonato forte fa ancora bruciare i nervi e ribollire il sangue, sicuramente aiutato da una situazione socio-politica che in questi cinque lustri non ha accennato a migliorare. Forse nemmeno quella musicale.

Cosa ha portato, dunque, il già semi-affermato nel circondario losangelino chitarrista dei Lock Up – sotto contratto con la Geffen – a mettere in piedi un atto di terrorismo sonoro di tali dimensioni, rischiando grosso dati i contenuti del suddetto? La semplice voglia di abbattere i muri di cui sopra, portare la consapevolezza politica maturata in ambito famigliare prima e all’università poi e sostanzialmente fare il cazzo che voleva, tanto cos’aveva da perdere? Parte del ricavato delle vendite di “Something Bitchin’ This Way Comes”?

Arruolato l’ex cantante degli Inside Out – quello che oggi chiameremmo un supergruppo dell’hc – De La Rocha seguito da Wilk e Commerford il combo mette assieme tutte le proprie influenze e comincia a macinare la giusta dose di hardcore di matrice minothreatiana, ma non basta. È l’hip hop a portare tutto tutto a galla, nella fattispecie Cypress Hill e Public Enemy, questi ultimi soprattutto dal punto di vista delle tematiche.

We harboured no anticipation of success given the fact that the music was a combination of genres that were at war with each other – punk, metal, and hip hop, And it was an interracial band, which was never heard on the radio, certainly in rock. Then there was the political content of the songs, which was well to the left of bands like The Clash and Public Enemy. Prior to 1992 that was not a recipe for getting to the top of the charts. Our expectations were very humble. When we were writing the songs for the first record we really didn’t even think we’d be able to book a club gig. We never dreamed of a record deal or a tour, we just thought the music was so beyond what was acceptable.

Le parole di Morello riecheggiano innocenti nonostante l’evidente volontà di sfondare ogni tipo di confine segnato fino a quel momento. Se già per i Beastie Boys la strada era stata molto simile, passati in un battibaleno dall’essere una band hardcore qualsiasi ad un act hip hop di rilievo assoluto, i RATM hanno alzato l’asticella cancellando ogni traccia dell’inflessione rap che ha segnato il dna della band, pur mantenendola in piena vista grazie al ruolo indiscusso di MC di Zack – checché ne dicano alcuni sciocchi uno dei migliori rapper sulla piazza – spazzando via l’idea di sampling e traducendo tutto in un verbo assolutamente nuovo con la chitarra di Tom a fare tutto il lavoro che altrove sarebbe toccato ai signori e padroni del turntablism.

Uno degli elementi predominanti dell’album arriva diretto a chi lo acquista prima ancora di farlo girare nel proprio hi-fi grazie alla copertina che immortala il monaco vietnamita Thích Quang Duc nell’atto di togliersi la vita in segno di protesta contro l’oppressione del governo del Vietnam ai danni del buddhismo. Una dichiarazione d’intenti che va oltre ogni possibile immaginazione: bruciare vivi per mostrare al mondo la propria esistenza, il proprio pensiero libero dal giogo e dall’oppressione delle regole imposte dall’alto. Esattamente il tipo di messaggio che la band vuole lanciare a tutti, ma anche un rischio enorme in termini di vendite, cosa che comunque non ha preoccupato più di tanto la Epic avendo lasciato al gruppo totale libertà espressiva. Ne parla ancora Morello:

One more reason we thought people would never hear the record! The idea in the music was that it was going to be an uncompromised and uncompromising expression of our world views as musicians and as activists. The photo on the cover of the monk self- immolating for his beliefs was one that we thought captured the integrity and the power that we were striving for in our songs!

Ma se la rivoluzione ha la necessità di essere espressa “live” come diceva il saggio allora uno studio di registrazione non avrebbe potuto contenere tutta l’irruenza e la violenza necessarie per esprimere il proprio disgusto verso un’America asservita a capitalismo ed ineguaglianze, tantomeno a comprimere distruttive pulsioni funk, chitarre infiammate e rese altro da sé e grida oltre il limite della protesta di strada. Così, assieme al produttore Garth “GGGarth” Richardson il quartetto trasforma lo studio in un vero e proprio stage da incendiare a suon di botte elettriche:

From the very first shows, the music always felt alive and powerful, we went into the studio to record, we were having a very difficult time capturing that. The way we turned the corner was one night we invited a bunch of friends into the studio and basically just played the set, so it was like a show, rather than, ‘Now we’re going to record the hi-hat.’ We got about half of the basic tracks on the record that night. It sounded like Rage Against the Machine.

Il disco si apre con un’illusoria calma in crescendo fino all’esplosione a mò di molotov della furiosa Bombtrack e le fiamme della copertina appiccano un incendio lungo tutto il sentiero. La chitarra stride, il basso gonfio ed acido sgroppa e la batteria è il metronomo dell’apocalisse urbana e la lezione del Chuck D delle origini non è solo imparata, è trascesa oltre ogni più rosea aspettativa e la voce di Zack è piena di rancore e butta fuori tutto l’astio necessario vomitando barre ad alto livello incendiario “But I learned to burn that bridge and delete / Those who compete at a level that’s obsolete / Instead I warm my hands on the flames of the flag”. La spoletta è stata sfilata e tutto scorre verso il disastro.

A dimostrarlo arriva il primo singolo estratto dall’album ossia l’ormai leggendaria Killing In The Name. Alcuni dei riff portanti dell’intero brano sembrano essere nati durante una lezione di chitarra di Morello, lezione immediatamente interrotta per incidere le neonate parti che vengono portate al volo in saletta per ottenere il battesimo del fuoco con il resto della band. Nonostante le libertà espresse dall’etichetta e dai suoi dirigenti che non solo selezionano il brano come singolo apripista e che propongono al gruppo di non editare le liriche per video e radio, il testo di Killing è anche l’unico a non essere trascritto sul libretto.

Che siano i 16 “Fuck you I won’t do what ya tell me”? O ancora il “motherfucker” gridato a squarciagola? A pagare le consuguenze di ciò non saranno né la band né l’etichetta, tanto che il pezzo finirà dritto nelle charts, bensì il dj radiofonico di Radio One Bruno Brookes che passerà il brano nella sua versione non censurata perdendo il posto e probabilmente causando più di un infarto ai puritani all’ascolto.

La cosa che lascia più il segno al di là di tutto è l’assoluta assenza di samples, tastiere e turntables che lasciano spazio a tutta la creatività di Morello rendendo il tutto ancor più straniante, mentre in seguito tutte le band figlie del crossover debilitante dei RATM si avvarranno di un DJ per riprodurre l’effetto “hip hop” qui è tutto figlio di uno studio disarmante del proprio strumento:

Well it was very important because you’d mistake a lot of the stuff on there for keyboards or a DJ or something, and I was very consciously trying craft an identity on the guitar that was based on other guitar players, but you would necessarily know that those sounds were made with a guitar. Any trippy noises you happen to hear on this record are coming from this band!

Così oltre alle digressioni iommiane di riff urticanti come quelli di Take The Power Back troviamo suoni provenienti dallo spazio profondo attraverso cui hanno viaggiato e viaggeranno personaggi come Dj Shadow, Dj Qbert, Terminator X o Mix Master Mike, solo riprodotti con uno strumento avulso al mondo del rap, tanto da diventare il marchio di fabbrica indelebile di tutte le reincarnazioni del gruppo – leggi infaustamente Audioslave e Prophets Of Rage. Anche nel momento peggiore rimane la coerenza, insomma.

Altro giro, altro regalo, altro singolo, altre lotte. Il ruolo di attivisti e guerriglieri da palco investe Freedom e nel puro spirito del rap primevo il brano non presenta alcun ritornello e il cui video racconta la storia di Leonard Peltier, nativo americano ingiustamente accusato nel 1977 di aver sparato a due agenti dell’FBI. Dietro alla storia della scelta del brano come singolo si cela però la vera natura dell’etichetta, ampiamente raggirata dai nostri:

It was actually at their suggestion that the next single be a six-and-a-half-minute song without a chorus, and that we make a video for Leonard Peltier! That suggestion came from the record company, not the band, like they were trying to outflank us! but how do we say no to that? And it didn’t have curse words, right? They’d studied the lyrics to make sure they didn’t have curse words, but as an aside in the song Zack yells ‘Bring that shit in!’ and it’s not written in the lyrics. We’re sitting there going ‘Oh no! All this work trying to help Leonard Peltier and now nobody will play it!’ So we came up with a story that the Aztec word for freedom was ‘shitine’, so what Zack was really saying was ‘Bring that shitine! Bring that freedom!’

Altra colonna portante dell’album è l’iper cinetica Know Your Enemy, forse vero e proprio vessillo e manifesto dell’intero corpus del gruppo. Il brano, oltre a contenere barre del calibro di “Something must be done / About vengeance, a badge and a gun / ‘Cause I’ll rip the mike, rip the stage, rip the system / I was born to rage against ‘ em  e la chiusa “Compromise, conformity, assimilation, submission, ignorance, hyprocisy, brutality, the elite / All of which are American dreams” vede la presenza di due guest di livello: Stephen Perkins, batterista dei Jane’s Addiction, ma soprattutto Maynard James Keenan, voce degli amici e colleghi Tool che proprio quell’anno davano alle stampe l’EP “Opiate” e il cui spirito di rottura era ben più di un fratello per i RATM.

Il bridge di Keenan è tanto semplice quanto efficace: “I’ve got no patience now / So sick of complancence now / Sick of sick of sick of sick of sick of you / Time has come to pay” e porta alla luce, in poche semplici righe, la stanchezza di una lotta che si tramuta in vera presa di coscienza di una vendetta dovuta ai danni del sistema contro cui De La Rocha prova tanto fastidio ed odio.

In un’intervista del 2016 il frontman di Tool ed A Perfect Circle narra un retroscena interessante della collaborazione in questione:

We actually were in a rehearsal space, I think just the vibe of where they wanted to go … I guess I had a little bit of that Green Jellö thing going on in me still, so I was looking for almost a Puscifer approach to music at that point. They were looking for a more serious approach, so I think that was pretty much immediate. If there was a consideration for that at all, it was very brief.

Le due anime distinte, quella metal e quella più prettamente rap, che altrove nel disco si fondono senza mezzi termini trovano il proprio picco da una parte con la distruttiva Bullet In The Head, forse il pezzo più rappresentativo del RATM pensiero, e dall’altra nella strabordante Wake Up, richiamo al risveglio delle coscienze addormentate del proprio Paese e dito puntato contro i movimenti assopiti. In Fistful Of Steel invece Morello lancia l’amo per i Korn del domani con le sue svisate chitarristiche. Una vera e propria orgia di cannonate ad altezza uomo confezionate per spezzare ossa a tutto spiano.

Cosa sia rimasto di quella rabbia, di quel bisogno di irrompere su una scena anestetizzata da droga e paranoie a 25 anni di distanza dall’uscita di “Rage Against The Machine” non è dato sapersi. L’essere fantomatico di De La Rocha, il suo non-essere rock star ed umano più che incostante, la confusione che aleggia da ormai parecchi anni nella mente di Morello, Wilk e Commerford che li ha portati a tirare su un baraccone imbarazzante assieme a quel che rimane dei pionieri B-Real e Chuck D – che in due non riescono a chiudere una barra una del vero padrone di casa – lasciano pochi dubbi sul futuro della band che più di tutte, Tool compresi, ha aperto le porte ad un diverso modo di intendere la musica “pesante” e pensante.

Ciò che ci rimane è però indelebile e non ha ancora smesso di bruciare. Esattamente come il monaco vietnamita che ha dato la vita per portare il suo messaggio al mondo. Verba volant, “Rage Against The Machine” manent.

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