“Daydream nation” uscì nel 1988. Gli States sono all’ultimo anno del mandato presidenziale di Ronald Reagan e hanno ripiegato verso posizioni definite storicamente “neoconservatrici”. Il sogno americano viene rimpiazzato dalla disillusione. I Sonic Youth propongono ironicamente un modello di nazione del sogno ad occhi aperti, una nazione della delusione, dove l’unica ambizione e possibilità è saggiare la “reale dimensione dell’inferno”.
I Sonic Youth arrivano al disco della maturità, offrendo un capolavoro, un disco di rottura, un indiscutibile punto di partenza e di ispirazione per molte band, a cominciare dagli italici Marlene Kuntz per passare al movimento grunge. La forza di questo disco risiede anche nella formazione del quartetto originario di New York: Thurston Moore alla chitarra elettrica, graffiante e perennemente distorta; Lee Ranaldo all’altra chitarra, un geniale stregone dello strumento a sei corde; Kim Gordon, incalzante e onnipresente al basso; Steve Shelley martellante e fantasioso alla batteria.
Ed entriamo in questa nazione dal sogno ad occhi aperti: ci accoglie una rivolta, una rivolta giovanile, la voce di Kim Gordon sibila versi gelida, glaciale. Una sequenza rapida di accordi introduce uno dei tanti capolavori dell’album “Teen age riot”. Niente è banale in questa che probabilmente è la canzone meno sperimentale all’interno dell’opera. Si avverte lo spirito punk dei quattro. Un punk alla Sonic Youth. Quasi sette minuti di distorsioni, cambi di tempo e impennate chitarristiche. Il delirio rivoltoso lascia il posto ad un’altra fiammata “Silver rocket”: sembra di viaggiare a velocità supersoniche su quelle corde, graffiate col plettro, maltrattate, fatte continuamente gemere da i due geni, Ranaldo e Moore. “The Sprawl” vede alla voce Kim Gordon, sensuale e al contempo dotata di un distacco artico nel timbro vocale. Il sogno americano non è che un viaggio per “conoscere l’esatta dimensione dell’inferno”, quanto può essere profondo e invivibile. Sarcastica, la bassista sussurra suadente “Come on down to the store, you can buy some more and more and more”. “’Cross the breeze” è la discesa agli inferi in cui non c’è “bisogno di essere spaventati”. La canzone si apre con una sequenza di accordi lievemente distorti per poi trasformarsi in una tempesta di noise e distorsioni. Il grunge prima del grunge. Quiete e tempesta. C’è anche spazio per il cantato di Lee Ranaldo in “Eric’s trip” e il chitarrista si diverte a fare il Lou Reed della situazione. Le chitarre sono sempre più folli, devastanti e devastate. I nostri cervelli sono come piume in balia di venti implacabili e squassanti. “Total trash” e “Hey Joni” corrono lungo la stessa lunghezza d’onda. Altro momento notevole è l’eclettica “Providence”, angosciante dialogo disturbato da rumori che lo rendono ancora più insopportabile e opprimente. “Candle” inizia con un arpeggio di chitarra acustico interrotto dall’incedere di una batteria e di un basso ossessivamente ipnotici. Le chitarre creano insieme alla base ritmica un’atmosfera completamente straniata. “Rain king” e “Kissability” vedono alla voce rispettivamente Thurston e Kim e contribuiscono a conferire al disco quella atmosfera di granitica unitarietà mai ripetitiva. Il capolavoro nel capolavoro va individuato in “Trilogy”, apoteosi del rumore, una monumentale enciclopedia del noise rock: quattordici, dico quattordici, minuti di piroette chitarristiche, rumori, effetti, chitarre martoriate, esplosioni adrenaliniche e spericolati ardimenti strumentali. Il genere è inclassificabile: l’opera strutturata in tre parti e tre tempi la farebbe ascrivere alla tradizione progressive, ma la carica di adrenalina e di energia che vengono fuori da questo colossale pezzo sono proprie del punk. Questa è la “Sister ray” dei Sonic Youth, il baccanale apocalittico che vale una carriera. A chi non sono venuti in mente, ascoltando questa canzone, i Velvet Underground di “Heroin” o di “Sister ray“? Forse proprio i Sonic Youth hanno portato a compimento le idee e le intuizioni di Cale e Reed. “Trilogy” parte con il rumore delle corde strisciate, il canto allucinato di Moore è sarcastico e doloroso, “la tua città è una bellissima città”. Primo spannung: chitarre che si impennano, inarrestabili e maestose, folli e disperate. Sembrano compiere una corsa schizofrenica verso quegli abissi infernali di cui i nostri volevano conoscere la dimensione reale. Il rumore sembra provenire direttamente dalle gole dei dannati, sembra essere la chiave che dischiude la porta dell’inferno. Ormai la forma della canzone è distrutta, abbattuta da questa “riot” condotta dai quattro musicisti. Non resta da questa distruzione che un ossessivo beat di batteria, leggeri ed inquietanti arpeggi di chitarra e in sottofondo metalliche chitarre distorte. La voce aliena di Moore si staglia su queste macerie musicali. Sempre lo stesso beat per oltre sei minuti, stessi arpeggi e chitarre che deflagrano sullo sfondo. E poi un improvviso silenzio cala. Spannung. Altrettanto improvvisamente parte la parte hardcore che straccia e distrugge ogni residuo di certezza con riff ossessivi, pochi accordi in pieno stile punk, un beat di batteria più penetrante di un martello pneumatico e la voce di Kim Gordon che sembra davvero provenire da uno zombie. Altri rapidi accordi distorti. Ed improvvisamente cala il sipario del silenzio. La “nazione del sogno ad occhi aperti” è desta. Ma siamo sicuri si sia trattato di sogno e non di incubo?
Tracklist